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L’Italia industriale a picco

In Editoriali on 25/10/2013 at 09:44

di Nicola Melloni

da Liberazione

Il declino dell’Italia si fa giorno dopo giorno più evidente. Solo qualche giorno fa è uscito un resoconto più che minaccioso di Roberto Orsi della London School of Economics: una disamina spietata che mostra una desertificazione industriale del paese che rischia, presto, di diventare irreversibile. Un mix letale di politiche macroeconomiche sbagliate, di assenza di politiche industriale, di tassazione troppo alta sul lavoro e sulle imprese, di burocrazia ci porta a essere ormai un paese sempre più marginale in Europa come nel mondo. I dati usciti in questi giorni non fanno che rinforzare tale disamina. Prima abbiamo visto che la Borsa Italiana è ormai una sorta di scherzo: negli ultimi 10 anni, nonostante la crisi economica, tutte le Borse, a parte quella di Atene hanno fatto profitti. Certo, le Borse dei paesi asiatici sono cresciute in maniera esponenziale, ma anche quelle europee sono riuscite a resistere, tranne, appunto quella italiana, ora sorpassata anche da Malesia e Indonesia. Non ci sono dubbi che le Borse non siano una buona o completa misura dello stato economico di un Paese, ma danno sicuramente una indicazione di un qual certo trend che non può non preoccuparci: in Italia non girano capitali e quindi ci sono pochi investimenti. Il mercato è asfittico, le piccole imprese non riescono e/o non vogliono quotarsi, diventando in questa maniera schiave del credito bancario, con tutti i rischi ad esso connessi, soprattutto in un periodo come questo. Le grandi imprese, nel frattempo, vanno all’estero a cercare finanziamenti, distaccandosi sempre più dall’Italia – vedi Fiat, ma non solo. E la Borsa italiana, con già un bassissimo indice di profittabilità, rimane invischiata in giochi di bassa lega in cui i grandi fondi non vogliono entrare. Sia chiaro, il capitalismo è un gioco sporco un po’ in tutto il mondo, ma i criteri italiani sono bassi anche per un mondo di pirati, senza reali protezioni per gli investitori, con una corruzione mostruosa, con una politicizzazione delle relazioni economiche (basti guardare che dirige la Consob) tale da impaurire gli investitori esteri.
A tutto questo si aggiunge l’articolo di Fubini su Repubblica in cui si annuncia che entro la fine dell’anno l’Italia non farà più parte del g8, scavalcata dalla Russia dopo esser stata già sorpassata dal Brasile. C’è poco da sorprendersi, in realtà, la Russia si sta riprendendo solo ora dopo il crollo, il caos e il latrocinio seguito alla scomparsa dell’Unione Sovietica. Ma rimane un paese con una popolazione ben maggiore di quella italiana e, soprattutto, con risorse naturali – su tutte, ma non solo, gas e petrolio – che ovviamente contribuiscono in maniera decisiva alla dimensione del pil. La caduta in classifica non si fermerà però qui: presto India e Canada ci passeranno davanti. Per l’India sembra, nuovamente, un fatto scontato, un paese con una popolazione che supera il miliardo ed una industrializzazione e sviluppo molto rapidi. Sul Canada, come dice lo stesso Fubini, ci sarebbe da riflettere maggiormente: se è vero che le materie prime sono dalla parte dei Nord Americani, è anche vero che parliamo di un paese con una geografia a dir poco complicata e con una popolazione assai ridotta. Ma che investe in innovazione ed educazione, mentre in Italia si continuano a tagliare i fondi dell’Università, ad esempio.
Perdere il posto tra le prime otto o anche le prime dieci economie planetarie non è un fatto di per sè scioccante, ed è un destino che accomunerà presto tutte le maggiori economie europee – anche la Germania, con la sua più che preoccupante dinamica demografica non è certo esente da rischi. Il capitalismo è sempre meno occidentale, con la crescita dei Brics e non solo, basti guardare a paesi in forte ascesa come Corea e Turchia. Il problema però è che l’Italia è rimasta all’ancora, con due decenni di crescita piatta, con un mercato dei capitali asfittico, con investimenti ridotti in ricerca e innovazione, con una diseguaglianza crescente, una mobilità sociale a picco, con una preoccupante regressione dei diritti. Ma soprattutto senza nessun piano per il futuro. La forza italiana, negli ultimi sessant’anni, è stato un tessuto industriale di alto livello, basato per decenni sulla grande industria – dalla Fiat, all’Eni, all’Olivetti – e poi sulla crescita e la dinamicità delle piccole e medie imprese, la Terza Italia dei distretti industriali. Oggi poco o nulla rimane di questo, le imprese chiudono giorno dopo giorno mentre lo Stato si disinteressa del futuro industriale del Paese. Tra i tanti problemi potremmo citare banche spesso inutili, pochi capitali, pochi fondi per innovare, sempre meno investimenti sul capitale umano, la scelta suicida di puntare sull’abbassamento del costo del lavoro come medicina contro la sindrome cinese. Di questo passo il problema non sarà tanto il ranking italiano tra le economie più avanzate, ma l’esistenza di una Italia industriale tout court.

De Gennaro: un poliziotto per tutte le stagioni

In Capitalismo on 04/07/2013 at 07:32

di Nicola Melloni

La nomina di De Gennaro a presidente di Finmeccanica è la classica cialtronata di un governo pasticciato e senza una vera linea politica. Ma di che ci sorprendiamo d’altronde? Ormai i poliziotti pare siano diventati una riserva della Repubblica, da piazzare strategicamente in ruoli non loro, neanche fossimo in Russia, dove gli ex agenti del KGB sodali di Putin la fanno da padrone. Non dimentichiamo infatti che già all’Ilva di Taranto fu inviato dal precedente governo il prefetto Ferrante, noto esperto di acciaio e di dinamiche industriali. Non se l’è cavata benissimo ci ha messo pochissimo per finire in mezzo agli scandali, si è anche lasciato andare ad attività di dubbio gusto, finanziando le colazioni al sacco di quelli che facevano il blocco del traffico per opporsi alle decisioni della magistratura. Legge ed ordine, che dire.

Con De Gennaro si cade addirittura nel ridicolo. Forse han deciso di mandare un poliziotto per fare un pò di pulizia nelle attività di Finmeccanica, indagata per lo scandalo-tangenti in India. O forse han deciso di adottare un approccio muscolare alle relazioni sindacali e far direttamente manganellare gli iscritti alla FIOM. Di sicuro, ha più le carte in regola in questi campi che per dirigere uno dei principali gruppi industriali del Paese. Ma in Italia, è noto, le competenze sono un optional, spesso anzi una palla al piede. Quel che conta sono le amicizie, i favori da riscuotere, e l’ubbidienza, magari uniti ad una certa dose di cialtronaggine ed omertà. Per chi se lo fosse dimenticato, De Gennaro era il capo di quella polizia che si rese responsabile della famosa macelleria messicana alla scuola Diaz. Probabilmente eseguendo alla perfezione ordini politici che imponevano una bella lezione a chi protestava. O, nel migliore dei casi, dimostrando una incompetenza gigantesca nella capacità di gestire le proprie risorse umane, con questori e capi reparto fuori controllo che trasformavano l’Italia in una dittatura per una sera. In entrambi i casi, in un paese serio e democratico, De Gennaro avrebbe finito la sua carriera nell’estate del 2001.

Invece 12 anni dopo va a dirigere un colosso industriale in crisi, probabilmente per eseguire gli ordini del padrone di turno, privatizzare i bocconi migliori del gruppo per fare cassa ed infliggere il colpo di grazia all’industria italiana. Non avremmo in effetti sapunto indicare un nome migliore per un lavoro del genere.

Le ipocrisie del G8

In Editoriali on 21/06/2013 at 09:35

di Nicola Melloni

da Liberazione

Quello del G8 è ormai un rito un po’ trito. Non che sia mai stato un evento veramente importante in termini politici. Una volta era semplicemente uno spazio pubblico in cui gli Stati Uniti davano un po’ di visibilità ai loro alleati, che da buoni vassalli portavano i loro rispetti all’inquilino della Casa Bianca. Era fondamentalmente un evento da PR, con cui i cosiddetti otto (o sette) grandi si beavano del loro predominio mondiale, decidevano le strategie della globalizzazione neoliberista davanti alle telecamere delle tv, cercavano una legittimazione mediatica.
Con la grande crisi e la crescita dei Bric il G8 sembra ormai il teatro un po’ patetico in cui va in scena la pantomima di un Occidente senza soldi che cerca ancora di farsi bello dei fasti del passato. Le riunioni ormai sono tenute in luoghi appartati, inavvicinabili, per paura di scontri e dimostrazioni, come anche quest’anno in Irlanda del Nord. I risultati, come sempre, sono stati banali quando non inutili.
L’obiettivo principale dell’incontro di quest’anno è stata la lotta ai paradisi fiscali. Che per inciso era stato il leit motif del G20 del 2009, e già questo basterebbe a screditare meeting di questo genere che anno dopo anno continuano a riproporre gli stessi temi anno dopo anno senza che davvero nulla cambi. Non che il tema dei paradisi fiscali sia cosa di poco conto, anzi. E che gli stati occidentali si comincino finalmente ad interessare di questo bubbone è certamente un fatto positivo.
Peccato che sia quantomeno legittimo dubitare della reale buona volontà di quegli otto pseudo-grandi che abbiamo visto in tv. Quando pensiamo ai paradisi fiscali tutti abbiamo in mente isole caraibiche dalle spiagge bianche e mari cristallini. Mentre pochi sanno che è l’Irlanda stessa ad essere un paradiso fiscale dove fanno base tantissime multinazionali operanti in Europa per poter pagare meno tasse. Stesso discorso vale per l’Olanda, dove ad esempio Amazon ha la sua sede legale europea: vende libri in Gran Bretagna ma registrando le transazioni come passanti per i Paesi Bassi paga poche tasse e non al governo del paese nel quale l’attività economica vera e propria avviene. A Londra non sono contenti, ma hanno davvero pochi titoli per protestare, visto che ben 8 dei paradisi fiscali mondiali sono di sovranità britannica, a cominciare dalle famigerate Channel Islands situate nella Manica e che sono diventate i rifugi per i ricchi inglesi che vogliono evitare di pagare le tasse in modo legale.
Insomma, la realtà per molti paesi, soprattutto all’interno dell’Unione Europea, è che i paradisi fiscali fanno comodo, altrimenti sarebbero già stati chiusi da un pezzo. I paradisi fiscali sono semplicemente la longa manu di quell’oligarchia capitalistico-finanziaria che muovendo i propri capitali a piacere si crea le leggi su misura per poterlo fare pseudo-legalmente. Un’oligarchia molto potente, che condiziona gli Stati e che i governi corteggiano con una sorta di dumping fiscale offrendo concessioni e sconti a mò di sussidi.
Spesso ci viene detto che è così che funziona il mondo, che gli Stati ormai hanno poco potere, che il capitale e i mercati sono troppo forti e non c’è nulla da fare – meglio piegarsi al volere delle multinazionali che vederle scappare. Ma è sempre così? Pare lecito dubitarne. Pensiamo davvero che se Londra costringesse Amazon o Starbucks a pagare tutte le tasse nel Regno Unito (e non in una delle sue isolette…) questi colossi del commercio deciderebbero di abbandonare un mercato così lucrativo? E’ assurdo solo ipotizzarlo.
Ben vengano dunque i controlli su scala globale e lo scambio di informazioni tra gli Stati per bloccare i giri di conto delle grandi corporations, come richiesto dal G8. Ma invece di incontri pubblicitari ad uso mediatico sarebbe meglio iniziare a fare cose concrete. Iniziando magari proprio all’interno della Unione Europea che può forzare il fiscal compact sugli Stati in crisi ma non sembra nemmeno in grado di bloccare i trucchi fiscali di alcuni dei suoi membri.

I problemi di Blatter non sono i miei

In Fin de parti(e) on 19/06/2013 at 10:10

Di @MonicaRBedana

Da ieri il Salamanca calcio non existe più. Un orgoglioso club con 90 anni di storia, ingollato dalla voragine del debito. Quel debito del calcio spagnolo che è parabola, metafora, dell’indebitamento del Paese stesso e del progressivo sgretolarsi della coesione sociale sotto il peso delle disuguaglianze.

Dei ricordi del Salamanca calcio scrivevo ieri in un’altra lingua, in un’altro blog. E una lettrice commentava con amarezza “ci stanno togliendo sempre più cose”.

Il problema è che non sono cose qualsiasi, sostituibili, ripristinabili quando passerà l’eterna “emergenza”; sono pezzi della nostra storia, le coordinate vitali che individuavano la nostra identità; i modi sottili e variati in cui si manifesta la nostra cultura collettiva, quella che non si consuma con l’uso.

Per questo motivo c’importano sempre meno i grandi proclami degli uomini riuniti nel G8 con la loro aria fintamente comune, le cravatte assenti, le maniche di camicia rimboccate, i mocassini comodi. Quelli che decidono l’assoluta priorità di una task force internazionale contro l’evasione ed i paradisi fiscali (e la decidono un secondo dopo che quei paradisi si sono resi ulteriormente inaccessibili) e di fisco lasciano morire le mie botteghe preferite in città. Quelli che con quasi 5 milioni di disoccupati e l’ennesima richiesta del FMI di ridurre i costi del lavoro e del licenziamento, trovano le cosiddette risorse per rimodernare la tomba di Francisco Franco. Che poi sono gli stessi che non hanno uno straccio di idea su come salvare il Salamanca calcio e tutte, tutte, tutte quelle buone cose  (non certo di pessimo gusto, ma sicuramente futili per chi sta al potere) che ancora costituiscono un fievole punto di riferimento, di partecipazione per la società. E, nel mentre, l’oligarca Blatter separa il calcio dai nostri -e solo nostri- problemi.