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Abbagli democratici

In Editoriali on 14/03/2014 at 11:44

 

di Nicola Melloni

da Liberazione

Negli ultimi anni, un po’ in tutto il mondo, sono tornati alla ribalta movimenti popolari che puntano, a volte con successo, a volte meno, a rovesciare tiranni, regimi, e governi. La stampa occidentale – insieme a gran parte dei politologi e dell’establishment –ha subito cercato di trovare una matrice comune, rievocando immediatamente l’89 e la scomparsa dei regimi socialisti. Il sottinteso è che un po’ ovunque i popoli oppressi, presto o tardi, si ribellano, e che la democrazia – quella occidentale, ovviamente – è un ideale a cui tutti tendono. In pratica una rilegittimazione – per mano altrui – di un modello che l’attuale crisi economica sembra mettere in discussione.

La realtà, però, è assai diversa da quel che traspare sui media. Un po’ per ignoranza e impreparazione, un po’ per interessi strategici e geopolitici, queste rivolte sono state descritte, appunto, come democratiche. Rivoluzioni, addirittura. Si tratta di ben altro.

Per prima cosa, non è possibile generalizzare: l’Egitto è diverso dalla Libia, e la Siria dall’Ucraina, tanto per fare qualche esempio. L’unica genuina rivoluzione che abbiamo visto in questi anni è quella di Piazza Tahrir, al Cairo.

In quel caso si trattava davvero di una massa di diseredati, di sconfitti di un trentennio di regime di Mubarak, uniti a quella parte dell’elite economica egiziana in difficoltà a seguito delle riforme economiche neoliberali che hanno aperto il mercato alle multinazionali occidentali. La richiesta di democrazia delle masse egiziane, però, aveva ben poco a che fare con la voglia di Occidente, come ci avevano fatto credere in un primo momento. Il regime dittatoriale di Mubarak è stato sostituito da un governo filo-islamico, democraticamente eletto. E quando questo è caduto sotto i colpi dei militari, non si sono sentiti, in Occidente, gli alti lai di sdegno dei difensori della democrazia. Quella, in fondo, va bene solo se serve i nostri interessi.

La bandiera della libertà è stata però sventolata in Libia e Siria, due feroci dittature da sempre non ben viste in Occidente. Peccato che, in questo caso, le rivolte non avessero nulla, o quasi, di democratico, trattandosi in realtà di scontri intestini tra diverse fazioni. In Libia, quella che era a tutti gli effetti una lotta di clan rivali, si è risolta, grazie all’intervento Occidentale, con la caduta del regime di Gheddafi, seguita però non certo in una svolta democratica quanto piuttosto dalla fine dello stato libico, al momento dominato da una guerra per bande, in una situazione totalmente anarchica. In Siria, dove si era provato a seguire una linea simile a quella libica, con tanto di intervento anglo-francese-americano, ci si è poi resi conto che i ribelli anti-Assad erano egemonizzati da gruppi di estremisti islamici. E dopo due anni di propaganda pro-democratica, la Siria è sparita da quasi tutti i media.

In Ucraina ed in Venezuela, poi, la situazione è completamente diversa. Se in Medio-Oriente la lotta della piazza era comunque contro regimi dittatoriali, i leader di Ucraina e Venezuela son stati democraticamente eletti. Si, democraticamente: a Kiev le elezioni furono giudicate dall’OCSE come democratiche, a Caracas, addirittura, l’ex presidente americano Jimmy Carter dichiarò che “il processo elettorale in Venezuela è il migliore del mondo”. Nessuno nega i problemi dei due governi: quello ucraino, sicuramente corrotto e inetto; ed anche in Venezuela, dove, come in ogni paese in via di sviluppo, le fratture sociali sono spesso insanabili. In entrambi i casi, però, si tratta senza dubbio di governi e parlamenti eletti, e le rivolte di piazza tese a rovesciare il governo non possono certo essere definite democratiche. In entrambi i casi, però, ci fa comodo definirle in questo modo perché Maduro e Yanukovich hanno scelto politiche non accomodanti per l’Occidente.

Nessuno, sia chiaro, mette in discussione la libertà di manifestare delle opposizioni. Bisogna però chiarire bene la situazione: a Kiev la piazza era dominata da gruppi paramilitari fascisteggianti che rifiutavano ogni compromesso per ribaltare, con la violenza, il governo eletto. Addirittura, come risulta da una telefonata intercettata tra il rappresentante europeo, Lady Ashton, e il ministro degli esteri estone, i cecchini che sparavano sulla folla – la pistola fumante contro Yanukovich – sarebbero stati membri dell’opposizione, incuranti di versare sangue pur di screditare il governo. Una notizia clamorosa, ma ignorata ad arte dai nostri giornali. In Venezuela, invece, la protesta dei cosiddetti studenti – in realtà giovani rampolli dell’alta borghesia, iscritti alle scuole private – è capeggiata da un golpista, già implicato in un precedente colpo di stato contro Chavez. Questi sono gli alfieri della democrazia occidentale, tanto osannati dalle nostre parti.

No, non si tratta di rivolte democratiche, ed in fondo, a noi, nemmeno interessa più di tanto. L’importante è la caduta di regimi ostili all’Occidente. Se poi ci ritroveremo a fronteggiare nazionalisti ucraini e jihadisti siriani, poco male, l’orizzonte temporale della nostra politica estera svanisce ogni giorno al tramonto.

Il mondo post-occidentale

In Editoriali on 09/09/2013 at 10:53

di Nicola Melloni

da Liberazione

Il mondo emerso dal G-20 Russia sembra sempre più spaccato e diviso, senza leadership e privo di una direzione comune, in balia dei venti di guerra e delle contrapposizioni tra stati. Le alleanze si fanno e disfano per tattica, ma senza una strategia complessiva ed anche i comunicati diplomatici che solitamente coprono divisioni profonde con parole di circostanza si fanno via via più duri.
Il G-20 è un organismo recente che ha ormai sostituito il vetusto ed inutile G-7 – una presa d’atto da parte del mondo occidentale che i problemi globali non possono essere risolti dal Washington Consensus e dall’unilateralismo americano. La crisi del 2007 e la fragilità delle economie americane ed europee hanno rappresentato una simbolica sveglia che decretava la fine delle illusioni da fine della storia del quindicennio post-Guerra Fredda. L’Occidente non era più guida ed esempio ed anzi aveva bisogno di coinvolgere altri partner per tentare di governare un mondo d’improvviso molto più complesso di quello che avevamo fino ad allora immaginato.
Senonché, dopo qualche anno interlocutorio, il G-20 non sembra essersi trasformato in una occasione di cooperazione tra le diverse potenze, quanto piuttosto di confronti a muso duro. Sotto i riflettori c’è ovviamente la guerra in Siria, con la durissima contrapposizione Usa-Russia. Ma i problemi per Washington, più che da Mosca, sembrano provenire dallo stesso mondo occidentale, incapace di elaborare una qualsivoglia strategia, ingabbiato nei suoi problemi domestici e dominato da piccoli interessi di bottega. Da una parte, molti stati europei, a cominciare dalla Germania e dall’Italia, si sono tirati fuori ancora prima che si discutesse di possibili bombardamenti. In Inghilterra, Cameron ha fatto i conti senza i Lib-Dem che hanno trovato l’occasione per un po’ di luci della ribalta e si sono uniti ad un inedito Labour pacifista per mettere sotto il governo. E’ rimasta solo la Francia di Hollande che tenta di replicare l’interventismo di Sarkozy in Libia ma che, come il suo predecessore, si dimostra disperatamente impreparato ed avventurista, senza un preciso obiettivo e con la sola speranza di mettersi un po’ in mostra, come un mediocre parvenu. Ed una volta di più le psuedo-potenze europee dimostrano di essere governate senza un minimo di criterio, muovendosi tra interventismo e pacifismo solo sulla base di convenienze politiche effimere e senza una vera strategia.
Dall’altra parte dell’Atlantico la situazione è solo marginalmente migliore. Obama era stato trascinato quasi contro la sua volontà nel pasticcio libico e si era tenuto a debita distanza anche dalla Siria, salvo poi fare più piroette di un ballerino del Bolshoi: intervento punitivo, pochi giorni, non abbiamo bisogno del Congresso, è una questione umanitaria, no è interesse nazionale, andiamo da soli, forse no, non facciamo cadere Assad, ma forse si. Per fare cosa, poi, non lo sanno neanche loro. Abbattere il regime per consegnare il paese al caos e agli estremisti islamici? O sperare in un nuovo uomo forte questa volta fedele a Washington? Un caos indescrivibile, accompagnato, ed è decisivo, da una economia ancora impantanata nel post-crisi. Molto semplicemente l’America non può permettersi altre avventure stile-Iraq.
Ed è proprio il lato economico che vede l’Occidente in ancor più chiara difficoltà. L’Europa – non certo l’Italia – sarà anche uscita dalla recessione, ma la stagnazione attuale rischia di trasformare la crisi in uno stato di fatto cronico, tra povertà, disoccupazione e disperazione. Gli Usa sono sì in crescita, ma con un continuo calo della percentuale della popolazione facente parte della forza lavoro, ormai tornata ai livelli di fine anni Settanta, in piena stagflazione. Mentre all’orizzonte si intravede la fine delle iniezioni di liquidità della Fed che potrebbe avere effetti collaterali sulla domanda e sul sistema dei cambi, causando un malcontento generalizzato tra le economie emergenti. Addirittura l’India si è detta preoccupata e ha ricordato agli Usa che agire unilateralmente senza tenere conto di eventuali ricadute sull’economia globale sarebbe irresponsabile. Una presa di posizione forte che ha trovato la solidarietà delle altre economie emergenti. Non solo parole però: sembra in dirittura d’arrivo la creazione di un fondo di 100 milardi di dollari da parte dei Brics per arginare eventuali ricadute sulle loro economie.
Ed allo stesso tempo, non sorprendententemente, gli stessi altri membri dei Brics si sono accodati alla Russia nella disputa siriana. Un messaggio chiaro agli Stati Uniti.
Insomma, quel che ci troviamo davanti al G20 è un mondo più diviso che mai, un mondo in cui l’Occidente ha perso molto del suo prestigio, del cosiddetto soft power. Un mondo di contraddizioni in cui l’America è ancora lo stato più potente del mondo ma viene vista con sospetto quasi ovunque ed in cui l’Europa parla con tante voci, quasi tutte irrilevanti. Un mondo in cui l’Occidente sta perdendo man mano la sua preponderanza politica ed in cui l’economia è fuori controllo. Un mondo insomma, che è sempre meno occidentale.

Autunno arabo: l’America va alla guerra tra bugie e propaganda

In Internazionale on 26/08/2013 at 08:03

Il premio Nobel per la pace è pronto a scatenare l’ennesima guerra a stelle e striscie. Una tradizione per ogni Presidente che si rispetti, dai tempi della Seconda Guerra Mondiale in avanti, con la sola eccezione di Carter. Dalla Guerra di Corea, al Vietnam che impelagò tutti i presidenti fino a Nixon, per poi proseguire con Panama e Grenada (Reagan), Iraq (Bush I), Kosovo (Clinton), Iraq e Afghanistan (Bush II). Insomma, parliamo del paese che da oltre 60 anni rappresenta una costante minaccia alla pace mondiale.

Ovviamente, tutti i conflitti erano più che giustificati, ci mancherebbe. Per esempio la guerra in Vietnam iniziò dopo che le navi americane furono attaccate nel Golfo del Tonchino. In Kosovo l’Alleanza Atlantica intervenne dopo il ritrovamento di una fossa comune con 41 cadaveri. E come tutti sanno, l’intervento contro Saddam nel 2003 fu provocato dalla costruzione di armi di distruzione di massa da parte del dittatore iracheno. Peccato che, in realtà, si sia sempre trattato di motivi prefabbricati a Washington e dintorni per giustificare la guerra: navi affondate da fuoco amico, cadaveri raccolti, cambiati d’abito e risepolti insieme per mostrare le bestialità dei serbi (e solo le loro), fialette piene d’acqua mostrate con sprezzo del ridicolo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Ed ora tocca alla Siria. Prima una campagna martellante sui bambini vittime di guerra, come se i bambini iracheni o afghani avessero avuto una vita migliore sotto le bombe a stelle e strisce. Ed adesso l’uso di armi chimiche. Peccato che non sappiamo chi le abbia usate. Seconda Carla del Ponte è sicuro che i ribelli abbiano armi chimiche. Mentre non c’è alcuna prova che il regime di Assad le abbia usate – i morti trovati pochi giorni orsono potrebbero essere vittime degli stessi ribelli o di bombardamenti che abbiano colpito depositi di armi chimiche.

Ci vorrebbe una inchiesta indipendente, come quella accettata dal governo siriano. Ma a Washington non ci pensano neanche. Nel 2003 l’inchiesta sulle armi di distruzione di massa ridicolizzò la propaganda americana. E quindi ora Obama mette le mani avanti: troppo tardi per un’inchiesta, meglio fidarsi dei dossier della CIA.

E poi, in fondo, le armi chimiche sono solo la goccia che fa traboccare il vaso, i massacri avvengono da ormai due anni e non sono più tollerabili. Naturalmente, il fatto che gli USA ed i loro alleati sauditi abbiano lautamente finanziato i ribelli con armi e aiuti, contribuendo in maniera decisiva a destabilizzare il paese e a prolungare la guerra, non è una variabile importante. Anzi.

L’importante ormai, è agire, ed al più presto. Per far vedere che gli USA esistono ancora. Non sanno cosa fanno – lasciano a Turchi e Sauditi il controllo politico della regione, appoggiano la Primavera Araba ma anche la repressione egiziana – ma almeno ci sono e sono ancora in grado di sganciare bombe. Quel che succederà dopo, con gli estremisti islamici al potere a Damasco, in fondo, non è affar nostro. Forse.

La furba guerra del premio nobel per la pace

In Internazionale on 14/06/2013 at 11:10

Parafrasando Bella Ciao si potrebbe dire che una mattina Obama si è  svegliato e ha trovato l’invasor, travestito da Assad. Quasi un fulmine a ciel sereno, adesso il leader siriano ha sgarrato, ha usato le armi chimiche e gli Stati Uniti interverranno. Che delle accuse di Obama ci siano per ora poche prove, non è rilevante – figuriamoci se le prove possano fermare un paese che con sprezzo del ridicolo ha mandato Colin Powell allo sbaraglio all’ONU ai tempi dell’Iraq . Ancora meno conta che Carla del Ponte abbia portato prove ben più concrete sul fatto che si, le armi chimiche son state usate, ma dai ribelli che ora Obama vuole aiutare.

Eppure in questi anni Obama si era cercato di tenere fuori dalla mischia. Vero, il ritiro dall’Afghanistan non c’era stato. Vero, c’era stata la guerra in Libia, ma gli USA erano più che altro stati trascinati da Cameron e Sarkozy. Ed invece, appunto, una mattina Obama si è svegliato e ha deciso che in fondo un pò di guerra non guasta. E come no! Certo questo repentino cambio di umore non avrà nulla a che fare con il gigantesco scandalo delle intercettazioni, con la scoperta (ma era poi un così grande segreto?) che i democraticissimi Stati Uniti tengono sotto sorveglianza milioni di cittadini – un copione perfetto per portare al cinema il seguito del bellissimo “Le vite degli altri”, anche se questa volta i cattivi non sono più i comunistacci tedeschi.

Ecco allora che bisogna subito trovare un altro cattivo per far dimenticare i peccatucci casalinghi del sistema americano. E quindi Assad capita proprio a fagiolo, un pò di propaganda, un pò di guerra, e magari qualche soldo in più alla NSA che ci difende da tutti questi stati terroristi – che poi era un pò quello che faceva la Stasi o il KGB….