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Capire la Russia

In Editoriali on 03/05/2014 at 18:45

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di Nicola Melloni

da La Rivista Il Mulino

L’escalation in Ucraina, prima in Crimea e ora nell’Est del Paese, ha riportato al centro dell’attenzione le relazioni tra Occidente e Russia. Ovviamente – e, certo, con ragione – si è sottolineato l’aggressivo militarismo russo e il disegno imperiale di Putin. Pensare però che a Mosca governi un satrapo orientale, un nuovo Stalin o, addirittura, un nuovo Hitler, come sostiene l’ex presidente georgiano Saakashvili, non aiuta a comprendere le dinamiche della politica russa, un errore imperdonabile se si vuole contribuire a risolvere la crisi attuale, al di là della propaganda.
Putin viene spesso descritto come un ex agente del Kgb nostalgico dell’Unione Sovietica, e in effetti il presidente russo già tempo fa dichiarò che la fine dell’Urss è stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo. Tale affermazione non dovrebbe però essere tradotta come semplice voglia di revanche da parte di Mosca, quanto piuttosto come dato storico-politico. Se per l’Occidente la fine dell’Urss era la dissoluzione del pericolo comunista, per Mosca significava una riduzione del proprio spazio geopolitico che risaliva a ben prima dell’Ottobre del ’17, e la diaspora di milioni di russi.
Nonostante la sbandierata partnership tra Russia e Occidente e l’inclusione nel G8, Mosca ha vissuto i decenni successivi alla fine dell’Urss come un susseguirsi di umiliazioni: basti pensare all’adesione degli ex Paesi del Patto di Varsavia e perfino delle Repubbliche baltiche alla Nato, portando l’Alleanza Atlantica a poche centinaia di chilometri da San Pietroburgo; al bombardamento della Serbia, storico alleato di Mosca, proprio mentre Primakov volava verso Belgrado; alla discriminazione politica dei cittadini russi in Lettonia ed Estonia – con il tacito assenso della Ue, proprio mentre Bruxelles imponeva a Slovacchia e Romania di garantire i diritti delle minoranze magiare nei loro territori come condizione insindacabile per entrare in Europa; e infine alla programmata costruzione di uno scudo anti-missile in Polonia e Repubblica Ceca – insieme alla costruzioni di basi americane in Uzbekistan e Kirghizistan – che non ha fatto altro che aumentare il senso di accerchiamento dei russi.
La crisi ucraina si sviluppa dunque in questo contesto. La rivolta di Maidan, dove diversi politici occidentali si sono fatti vedere tra la folla, la successiva cacciata del governo eletto di Yanukovich – con Washington che si vanta di avere speso oltre 5 miliardi di dollari per “promuovere la democrazia in Ucraina” – e il riconoscimento immediato di un governo senza mandato popolare e che comprende elementi di estrema destra, normalmente sanzionati dalla Ue, sono la riprova, agli occhi di Mosca, della presenza di un disegno occidentale anti-russo.
Questo è inaccettabile per diverse ragioni: Putin ha basato molta della sua popolarità proprio sulla rivendicazione dell’orgoglio nazionale russo e sulla riproposizione del ruolo della Russia come grande potenza – almeno a livello regionale. Non a caso la netta maggioranza dei russi appoggia la reazione di Putin agli eventi di Kiev, come rilevato dal Centro Levada.
Inoltre, dal punto di vista geopolitico, un’Ucraina occidentalizzata (e che sigla un accordo non solo economico, ma anche strategico, con la Ue), mette a rischio la sicurezza stessa della Russia – e ben sappiamo come in passato altri Paesi, come ad esempio Stati Uniti e Israele, siano intervenuti direttamente nelle scelte politiche e militari di Stati sovrani confinanti – e non – per garantire la propria sicurezza. Quanto alla Crimea, se è vero che la secessione della regione contraddice le passate posizioni di Mosca sul separatismo, al Cremlino si fa anche notare che i precedenti di Kosovo e Mayotte dimostrano come sia la politica, e non il diritto internazionale, a determinare i limiti della sovranità e dell’irridentismo. D’altronde, come anche commentatori non certo imputabili di simpatie filorusse, come Jeffrey Sachs, e non solo, hanno sostenuto, è complicato ergersi a paladini del diritto internazionale dopo anni in cui lo si è volutamente ignorato.
Insomma, la Russia sostiene che i fatti ucraini siano stati una provocazione aperta contro Mosca e che la reazione del Cremlino sia di natura prettamente difensiva, e non certo offensiva. Per evitare che il muro contro muro si tramuti in conflitto, è necessario, come suggerito anche da Kissinger, che l’Occidente riconosca gli interessi russi nella regione. Di conseguenza un’Ucraina neutrale, come richiesto dal ministro degli esteri Lavrov, sembra un passo indispensabile per normalizzare le relazioni. Al contempo, la riforma costituzionale in senso federalista richiesta da Mosca potrebbe garantire il rispetto delle differenze etniche, linguistiche e culturali dell’Ucraina, evitare la ripetizione della destabilizzante politica di winner take all – secondo cui la maggioranza domina l’opposizione (e i primi passi del nuovo regime, dall’uso del russo, alla mano libera data alle truppe paramilitari, alla lustracija non lasciano presagire nulla di buono) e che rischia di portare alla guerra civile e al separatismo. Questo non vuol dire appeasment verso Mosca, quanto piuttosto un processo condiviso che garantisca gli interessi e le aspirazioni di tutti i protagonisti.

Abbagli democratici

In Editoriali on 14/03/2014 at 11:44

 

di Nicola Melloni

da Liberazione

Negli ultimi anni, un po’ in tutto il mondo, sono tornati alla ribalta movimenti popolari che puntano, a volte con successo, a volte meno, a rovesciare tiranni, regimi, e governi. La stampa occidentale – insieme a gran parte dei politologi e dell’establishment –ha subito cercato di trovare una matrice comune, rievocando immediatamente l’89 e la scomparsa dei regimi socialisti. Il sottinteso è che un po’ ovunque i popoli oppressi, presto o tardi, si ribellano, e che la democrazia – quella occidentale, ovviamente – è un ideale a cui tutti tendono. In pratica una rilegittimazione – per mano altrui – di un modello che l’attuale crisi economica sembra mettere in discussione.

La realtà, però, è assai diversa da quel che traspare sui media. Un po’ per ignoranza e impreparazione, un po’ per interessi strategici e geopolitici, queste rivolte sono state descritte, appunto, come democratiche. Rivoluzioni, addirittura. Si tratta di ben altro.

Per prima cosa, non è possibile generalizzare: l’Egitto è diverso dalla Libia, e la Siria dall’Ucraina, tanto per fare qualche esempio. L’unica genuina rivoluzione che abbiamo visto in questi anni è quella di Piazza Tahrir, al Cairo.

In quel caso si trattava davvero di una massa di diseredati, di sconfitti di un trentennio di regime di Mubarak, uniti a quella parte dell’elite economica egiziana in difficoltà a seguito delle riforme economiche neoliberali che hanno aperto il mercato alle multinazionali occidentali. La richiesta di democrazia delle masse egiziane, però, aveva ben poco a che fare con la voglia di Occidente, come ci avevano fatto credere in un primo momento. Il regime dittatoriale di Mubarak è stato sostituito da un governo filo-islamico, democraticamente eletto. E quando questo è caduto sotto i colpi dei militari, non si sono sentiti, in Occidente, gli alti lai di sdegno dei difensori della democrazia. Quella, in fondo, va bene solo se serve i nostri interessi.

La bandiera della libertà è stata però sventolata in Libia e Siria, due feroci dittature da sempre non ben viste in Occidente. Peccato che, in questo caso, le rivolte non avessero nulla, o quasi, di democratico, trattandosi in realtà di scontri intestini tra diverse fazioni. In Libia, quella che era a tutti gli effetti una lotta di clan rivali, si è risolta, grazie all’intervento Occidentale, con la caduta del regime di Gheddafi, seguita però non certo in una svolta democratica quanto piuttosto dalla fine dello stato libico, al momento dominato da una guerra per bande, in una situazione totalmente anarchica. In Siria, dove si era provato a seguire una linea simile a quella libica, con tanto di intervento anglo-francese-americano, ci si è poi resi conto che i ribelli anti-Assad erano egemonizzati da gruppi di estremisti islamici. E dopo due anni di propaganda pro-democratica, la Siria è sparita da quasi tutti i media.

In Ucraina ed in Venezuela, poi, la situazione è completamente diversa. Se in Medio-Oriente la lotta della piazza era comunque contro regimi dittatoriali, i leader di Ucraina e Venezuela son stati democraticamente eletti. Si, democraticamente: a Kiev le elezioni furono giudicate dall’OCSE come democratiche, a Caracas, addirittura, l’ex presidente americano Jimmy Carter dichiarò che “il processo elettorale in Venezuela è il migliore del mondo”. Nessuno nega i problemi dei due governi: quello ucraino, sicuramente corrotto e inetto; ed anche in Venezuela, dove, come in ogni paese in via di sviluppo, le fratture sociali sono spesso insanabili. In entrambi i casi, però, si tratta senza dubbio di governi e parlamenti eletti, e le rivolte di piazza tese a rovesciare il governo non possono certo essere definite democratiche. In entrambi i casi, però, ci fa comodo definirle in questo modo perché Maduro e Yanukovich hanno scelto politiche non accomodanti per l’Occidente.

Nessuno, sia chiaro, mette in discussione la libertà di manifestare delle opposizioni. Bisogna però chiarire bene la situazione: a Kiev la piazza era dominata da gruppi paramilitari fascisteggianti che rifiutavano ogni compromesso per ribaltare, con la violenza, il governo eletto. Addirittura, come risulta da una telefonata intercettata tra il rappresentante europeo, Lady Ashton, e il ministro degli esteri estone, i cecchini che sparavano sulla folla – la pistola fumante contro Yanukovich – sarebbero stati membri dell’opposizione, incuranti di versare sangue pur di screditare il governo. Una notizia clamorosa, ma ignorata ad arte dai nostri giornali. In Venezuela, invece, la protesta dei cosiddetti studenti – in realtà giovani rampolli dell’alta borghesia, iscritti alle scuole private – è capeggiata da un golpista, già implicato in un precedente colpo di stato contro Chavez. Questi sono gli alfieri della democrazia occidentale, tanto osannati dalle nostre parti.

No, non si tratta di rivolte democratiche, ed in fondo, a noi, nemmeno interessa più di tanto. L’importante è la caduta di regimi ostili all’Occidente. Se poi ci ritroveremo a fronteggiare nazionalisti ucraini e jihadisti siriani, poco male, l’orizzonte temporale della nostra politica estera svanisce ogni giorno al tramonto.

La polveriera ucraina

In Editoriali on 02/03/2014 at 17:05

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di Nicola Melloni

da Liberazione

Era tutto decisamente prevedibile. L’Ucraina sprofonda nel caos, a violenza si risponde con violenza e la Russia comincia a mostrare i muscoli, per ora minacciando, presto, forse, schierando il suo esercito – al momento ancora nelle basi militari.
Non ci sono dubbi che l’intervento russo sarebbe un classico atto imperialista, e d’altronde Putin non fa nulla per nasconderlo – in questo un poco più onesto degli occidentali che si muovono sempre fingendo di voler difendere la democrazia e i diritti umani. Anche il Presidente russo ha dichiarato di voler proteggere i russi della Crimea da possibili azioni e discriminazioni di Kiev ma anche serenamente ammesso che la Russia interverrà per difendere i suoi interessi. Un ritorno non tanto e non solo alla Guerra Fredda, ma addirittura al colonialismo, dove il più forte fa quello che vuole in casa del più debole.
Tuttavia, puntare, giustamente, il dito contro la revanche russa, non aiuta ad inquadrare correttamente quanto successo in Ucraina. Dove un governo eletto – più o meno democraticamente, come sempre successo in Ucraina, anche quando vincevano Tymoshenko e soci – è stato scacciato con le armi da una fazione politica apertamente appoggiata da Europa e Usa. E dove, soprattutto, dietro una cortina fumogena di propaganda che mostrava una lotta tra democrazia e dittatura, è andato in scena uno scontro tra diversi interessi: l’Occidente filo-europeo e l’Oriente filo-russo. Non può allora davvero sorprendere che questo Oriente che aveva vinto le elezioni si senta ora minacciato da un governo frutto della violenza di piazza e non certo legittimato da alcuna investitura popolare. Tanto più che la prima mossa del nuovo regime è stata quella di proibire l’uso del russo come lingua ufficiale, un inequivocabile atto ostile non solo vero la minoranza russa, ma pure verso quella quasi metà della popolazione ucraina – residente, appunto, nell’Est del paese – che parla russo e non ucraino.
I manifestanti di Maidan – gruppo eterogeneo di democratici, liberali, nazionalisti e neo-nazisti – hanno vinto la loro battaglia sul campo contro un governo comunque inetto e certo non solido, ma una vittoria in piazza, nell’Ucraina divisa in due, è solo il prologo ad altri scontri: quando la violenza diventa lo strumento per ottenere il potere, non ci si può aspettare il rispetto delle regole da parte dei momentaneamente sconfitti filo-russi.
Yanukovich, ricordiamolo, aveva offerto un compromesso ai manifestanti, promettendo loro la premiership e creando quindi un governo provvisorio di unità nazionale che avrebbe evitato lo sfacelo attuale. Tale compromesso però è stato sempre rifiutato, mentre molte cancellerie occidentali continuavano a chiedere le dimissioni del Presidente eletto. Il crollo del governo ha infine svelato la situazione reale: non la vittoria della democrazia, ma il successo di una metà del Paese contro l’altro, col bel risultato, ampiamente prevedibile, che la rivolta si sta trasformando in guerra civile. Guerra civile che, naturalmente, ha il suo bel contorno geopolitico: da una parte, supporto incondizionato al nuovo regime in Occidente; dall’altra, in una temibile escalation, rischio di intervento militare russo per difendere i propri interessi.
Quello che però deve esser chiaro è che in Europa ed in America, nessuno è disposto a morire per Kiev. Si è cercato, soprattutto a Washington, di cavalcare la protesta ucraina per indebolire Mosca, ma il tanto sbandierato supporto occidentale si ferma alle parole. Non solo non ci sarà nessun soldato americano a Kiev – e la risposta degli USA, per ora, è stata semplicemente di abbandonare il G8 – ma non ci saranno neanche dollari o euro per aiutare una nazione sull’orlo del lastrico. Tutt’al più, un intervento del FMI, con le solite lacrime e sangue per la popolazione coinvolta. La Russia, invece, aveva offerto un supporto concreto, tanti soldi e gas scontato per rivitalizzare un’Ucraina filo-russa. La UE non può e non vuole offrire nulla di lontanamente simile, ed in fondo, nemmeno vuole un paese enorme, poverissimo e problematico come l’Ucraina in Europa, a dispetto delle speranze di tanti manifestanti. Kiev, in fondo, era solo una fiche geopolitica da spendere contro Mosca, e verrà presto abbandonata sul tavolo della diplomazia, con tanti saluti alla supposta lotta per un’Ucraina democratica.

In Ucraina vince l’opposizione. Ma i problemi iniziano adesso

In Internazionale on 23/02/2014 at 09:36

di Davide Sormani

Gli oppositori del regime ucraino hanno finalmente ottenuto quello che volevano. Viktor Janukovič ha lasciato Kiev per fuggire nelle regioni orientali mentre l’ex-premier Julija Timošenko è stata liberata dopo aver scontato circa tre anni di carcere a seguito di una condanna per frode e abuso di potere. Il processo era stato a suo tempo contestato da molti, che avevano espresso la convinzione che dietro il procedimento giudiziario ci fosse la regia di Janukovič e dei suoi, desiderosi di eliminare politicamente l’avversario più pericoloso.

Sulle operazioni che hanno portato a questo risultato rimangono però dei dubbi di importanza cruciale. Janukovič era stato eletto nel 2010 quando le redini del potere erano in mano a due suoi avversari, presidente era il leader della rivoluzione arancione del 2004 Viktor Juščenko e proprio Julija Timošenko era premier, oltre che principale candidato alle presidenziali contro Janukovič. A prescindere dalle accuse di frode elettorale pare evidente che Janukovič godeva all’epoca di un consenso reale e ne godeva soprattutto nelle regioni orientali proprio in virtù del fatto di essere apertamente il candidato filo-russo. La tanto proclamata mediazione dei giorni scorsi è stata sostanzialmente una farsa, visto che dopo aver trovato col presidente in carica un accordo su elezioni anticipate e un ritorno alla costituzione del 2004 (che limitava i poteri del presidente) lo si è comunque rovesciato.

I veri nodi però verranno al pettine ora. I manifestanti che per mesi hanno protestato contro  Janukovič sono a dir poco eterogenei. Ci sono sinceri sostenitori dei valori dell’occidente, ma anche nazionalisti di frange estreme, che si sono dimostrati decisamente violenti nei giorni scorsi. Una compagine così eterogenea è andata bene per abbattere un regime, ma andrà anche bene per costruirne uno? Mi pare lecito sollevare forti perplessità.

L’UE e gli USA hanno apertamente appoggiato le proteste, ma il loro approccio, in particolare quello dell’Unione Europea, pare decisamente avventuristico e improvvisato. Dopo aver irretito almeno parte della società ucraina prospettandole una possibile integrazione con le strutture dell’unione ha proposto un misero accordo di associazione, senza proporre però quegli aiuti economici di cui l’Ucraina ha un disperato bisogno. Da anni si mostra la chimera del partenariato tra Ucraina e UE, senza dire chiaramente se si vuole o no l’Ucraina come membro, a quali condizioni e in quali tempi, e l’Ucraina deve scegliere ora tra l’UE e l’unione doganale con la Russia. Successivamente l’UE ha sostenuto i dimostranti senza curarsi molto del fatto che tra di essi ci fossero anche frange estremiste e nazionaliste (ma l’UE non si propone il superamento dei nazionalismi?).

Ora che i dimostranti hanno ottenuto la loro vittoria si dovrà risolvere una situazione politica a dir poco complessa. Per farlo l’UE dovrà dimostrare di avere quelle capacità politiche che finora sono state assolutamente latitanti. Pare infatti irrealistico pensare che gli USA possano fare ancora una volta da supplenti in caso di incapacità europee, impegnati come sono a trovare accordi con la Russia su dossier che ritengono ben più importanti come quelli siriano e iraniano. Infatti un sostegno smaccato a un regime ucraino filo-UE e NATO creerebbe inevitabili attriti con Mosca e pare naturale che con il tempo gli USA tendano a sfilarsi dal dossier ucraino.

Il primo nodo da sciogliere sarà ovviamente politico. Si riuscirà a dar vita a un governo riconosciuto da tutti gli ucraini, anche da quelli delle regioni orientali? Il pericolo che le regioni russofone si sentano trattate da paria politici è concreto: in fin dei conti il candidato che loro avevano sostenuto ed eletto è stato rovesciato con quello che è sostanzialmente un colpo di stato. Se un futuro governo arrivasse ad accordi con l’UE, come si compenserebbero le difficoltà delle regioni orientali, da sempre orientate sia culturalmente che commercialmente verso la Russia, e dove i turisti russi si recano in massa d’estate?

C’è poi il problema dell’economia ucraina. Mosca aveva promesso un maxi-prestito a rate e uno sconto sul gas. Ma se il governo sarà a lei ostile difficilmente erogherà le prossime rate e probabilmente il gas tornerà al prezzo di mercato. L’UE, dopo aver appoggiato i rivoltosi, saprà compensare le perdite economiche che un ricollocamento strategico dell’Ucraina comporterebbe? In sostanza qui bisogna pompare dei soldi, e con tutta probabilità nemmeno pochi. Sarà in grado l’UE, tanto divisa sull’erogazione di fondi ai suoi stessi stati membri, di prendere una decisione politica simile? Se non lo farà, il governo ucraino sarà in pesantissima difficoltà. Il rischio è grosso, un governo ucraino debole e potenzialmente considerato illegittimo da parte delle regioni orientali potrebbe dover fronteggiare spinte secessioniste notevoli nell’est e in Crimea, regioni che sono in maggioranza russofone e appartengono all’Ucraina solo dagli anni ’50 quando Kruščëv gliele regalò e dove i russi mantengono la flotta del Mar Nero. Ma anche la regione sud-occidentale di Odessa e la capitale Kiev, da sempre divisa in due, potrebbero essere delle spine nel fianco.

La partita è ancora aperta e ancora non sappiamo come finirà. Pare però evidente l’immaturità politica di un’UE che appoggia l’abbattimento di un regime senza avere apparentemente una strategia in mano per dare sostegno a quello che andrà formandosi. La Russia ha ancora diverse carte da giocare e le giocherà, mentre l’UE pare in mezzo al guado senza sapere quale sia la sponda dove le conviene approdare. Se le decisioni però non saranno rapide ed efficaci l’Ucraina potrebbe sfaldarsi.

Ucraina, tutte le responsabilita’ occidentali

In Editoriali on 21/02/2014 at 08:14

di Nicola Melloni

da Liberazione

Tutti preoccupati, ora, da Berlino a Washington passando per Londra: bisogna fermare le violenze in Ucraina. E naturalmente diffidano il presidente eletto Yanukovich dall’usare la forza per risolvere la situazione. Nessuno però che rivolga lo stesso appello ai dimostranti che quelle violenze hanno iniziato. In pratica, quello che si chiede, è la resa del Presidente, deposto dai facinorosi guidati dai neofascisti.

Un modo di fare che la dice lunga sulle responsabilità dell’Occidente. Su tutti i media si continua a puntare il dito contro la Russia, addirittura ritenuta responsabile del bagno di sangue di questi giorni. E non ci sono dubbi che Putin molto abbia tramato per portare l’Ucraina nell’orbita di Mosca, e che sia anche lo sponsor principale di Yanukovich. Ma UE e USA cosa hanno fatto? Dall’inizio delle proteste hanno dato carta bianca ai dimostranti secondo il principio che quando ci fa comodo non è il Parlamento ma la piazza a dover prendere le decisioni. D’altronde Yanukovich è stato eletto presidente da qualche anno ormai e nessuno aveva mai messo in dubbio la legittimità della sua vittoria, salvo che, allorquando quel presidente e quel parlamento hanno deciso di scegliere l’accordo con la Russia – per altro molto generoso – rifiutando quello con la UE, Yanukovich stesso e la Duma sono diventati dei banditi perché non ascoltavano il popolo.

Chissà cosa si sarebbe detto a parti invertite, se un presidente filo-europeo fosse stato contestato da manifestanti pro-Russia? Squadristi, non abituati alla democrazia, vogliono rovesciare in piazza il risultato delle urne, e via dicendo. Tutte cose che non valgono quando ci sono di mezzo i nostri interessi. Sui giornali è passata la favoletta che gli Ucraini vogliono l’Europa. Ma chi sono questi Ucraini? Sicuramente ce ne sono molti che guardano ad Occidente. Altrettanto sicuramente ce ne sono molti – e probabilmente di più, guardando i risultati elettorali –che dell’Europa non vogliono saperne. Loro però non valgono, non sono animati da voglia di democrazia e afflato di libertà. E quindi, appunto, appoggio incondizionato alla piazza anti-Yanukovich, con dichiarazioni roboanti sia da Bruxelles che da Washington, una chiara intromissione negli affari interni di un altro paese. Ma finché si manifestava, in fondo, che male c’era?

Solo che le cose sono poi andate fuori controllo. Quella piazza pro-EU si è trasformata in un covo di fascisti xenofobi anti-russi che si rifanno ai collaborazionisti nazisti della Seconda Guerra Mondiale. Senza che dai palazzi occidentali si sollevasse il qualsivoglia dubbio. Anzi, si è implicitamente dato loro carta bianca, continuate a combattere, perché è il presidente che deve fare un passo indietro. Voi – sembra dire la litania occidentale – siete dalla parte della ragione. E dunque quando Yanukovich ha proposto una mediazione ed un governo di coalizione con l’opposizione, quest’ultima ha detto no. Non vuole la tregua, vuole la vittoria totale, al costo di un bagno di sangue. Il governo di Kiev ha tollerato l’occupazione delle piazze e dei ministeri – cosa che nessun esecutivo occidentale si sognerebbe di fare – e, negli ultimi giorni, ha richiesto senza successo che i manifestanti più violenti consegnassero le armi. Non sembrano provocazioni, ma atti di buona volontà. Dall’Occidente, invece, nessun supporto alla mediazione, si è continuato solamente a ribadire il sostegno alla strategia folle dell’opposizione.  Ed ora, dopo le violenze ripetute, si continua ad accusare Kiev (e Mosca) di essere responsabili di questa strage. No alla repressione. Si, invece, pare di capire, alle violenze della piazza. Basta poi ricordarsene quando accadrà altrove.