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Brasile. Giornata Nazionale di Lotta

In Internazionale on 12/07/2013 at 09:17

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di Simone Rossi

Ieri, 11 luglio, migliaia di lavoratori e lavoratrici brasiliani hanno incrociato le braccia e sono scesi nelle strade delle maggiori città brasiliane per la Giornata Nazionale di Lotta indetta dalla CUT, principale centrale sindacale brasiliana, e da altre confederazioni per portare le tematiche del lavoro e dei diritti al centro del movimento di protesta che investe da un mese la nazione. Tra le rivendicazioni dei lavoratori e le organizzazioni che li rappresentano vi sono: incremento dei salari, riforma della previdenza, libertà di manifestazione e di sciopero, incremento delle tutele dei lavoratori, miglioramento dei servizi pubblici, riforma agraria, diritto alla casa, democratizzazione dei media. Le categorie coinvolte sono state trentotto, dal settore del trasporto a quello metalmeccanico, dai portuali al pubblico servizio, con la notevole defezione dei dipendenti delle aziende di trasporto di San Paolo e Rio de Janeiro, che hanno deciso di non scendere in sciopero con una votazione tenuta mercoledì notte. Secondo il carioca Jornal do Commercio i lavoratori in questione hanno ritenuto di dover tutelare un servizio pubblico fondamentale per i cittadini; tuttavia avrebbe pesato l’eventualità di una multa salata comminata dai tribunali del lavoro locale nel caso non fossero stati osservati vincoli minimi di servizio. Le manifestazioni hanno avuto un carattere generalmente pacifico; la tensione è salita in serata a Rio de Janeiro, dove la polizia ha lanciato lacrimogeni contro i manifestanti che cercavano di raggiungere la sede del governo statale. Nella capitale federale Brasilia gli attivisti del Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra hanno occupato la sede dell’INCRA, l’istituto che presiede alla colonizzazione delle terre vergini ed alla redistribuzione delle terre incolte, per chiedere il riavvio della riforma agraria e l’assegnazione di terre a centocinquantamila famiglie.
In base a quanto riportato dal quotidiano Folha de São Paulo i cortei avrebbero avuto una partecipazione inferiore a quella vista nelle scorse settimane nelle manifestazioni promosse da alcuni movimenti di base ed associazioni, in cui è stata marginale quando non nulla la essenza dei partiti progressisti e delle stile sindacali; tuttavia non sono disponibili stime ufficiali sulla partecipazione alle manifestazioni né informazioni sull’adesione allo sciopero. Se il dato fornito dal quotidiano paulista fosse confermato al termine della giornata si consoliderebbe quella tendenza allo spontaneismo ed alla cosiddetta antipolitica che ha caratterizzato le prime settimane di proteste; una tendenza le cui implicazioni possono portare ad effetti opposti a quelli desiderati come espresso in un articolo su questo blog giorni fa.

Nel frattempo la presidentessa Dilma Rousseff ha subito una sconfitta alla Camera dei Deputati federale, dove i capigruppo hanno cassato la proposta di portare al voto dell’aula la legge con cui si convocherebbe un plebiscito per una riforma istituzionale. Il plebiscito era una delle risposte fornite dall’Esecutivo alle centinaia di migliaia di cittadini scesi in piazza per chiedere più democrazia e servizi pubblici migliori, tuttavia spetta alle Camere e non al Governo legiferare in materia ed i deputati hanno ritenuto di non farlo, con la sola eccezione del Partito dei Lavoratori (PT), cui appartiene Rousseff. Della strategia lanciata dalla presidentessa per accogliere le richieste dei manifestanti restano in piedi la proposta di riforma elettorale, che sarà discussa ad ottobre, e l’impegno ad incrementare i finanziamenti per i servizi pubblici, in particolare i trasporti, su cui la coalizione di maggioranza si sta confrontando in questi giorni con primi evidenti divergenze all’interno di un’alleanza variegata, dove i progressisti del PT sono insieme ad i moderati del PMDB.

Il fallimento della Rivoluzione egiziana e la strada verso il cambiamento

In Da altri media on 08/07/2013 at 22:35

 

Cominciare una rivoluzione è difficile. Anche più difficile continuarla. E difficilissimo è vincerla. Ma è solo dopo, quando avremo vinto, che cominceranno le vere difficoltà. (La Battaglia d’Algieri)

Questo insegnamento dovrebbe rimanere nella mente di tutti i movimenti che scuotono questo inizio di secolo, dall’Egitto alla Turchia, dal Brasile alla vecchia Europa. Milioni di persone stanno prendendo le vie della protesta, le strade sono piene, paesi in via di sviluppo e paesi ricchi, o ex ricchi, sono scossi da rivolte, dimostrazioni, onde di cambiamento. Nuova borghesia, giovani senza lavoro, poveri e meno poveri spesso uniti nella richiesta di maggiore democrazia, di uno stato meno sordo, di una economia più inclusiva. Non si accetta più che altri decidano per il nostro destino.
Tutte dimostrazioni all’insegna dello spontaneismo, con un’agenda politica tutt’altro che chiara e contraddistinte dall’assenza di grandi organizzazioni di massa. In qualche maniera questo ha rappresentato un vantaggio per la protesta, almeno nella sua fase iniziale. In quasi tutto il mondo la fiducia nelle organizzazioni politiche, di tutti i tipi, è in netto calo, e la mancanza o la marginalizzazione di partiti ha favorito  la formazione di una alleanza di cittadini molto più larga di quel che si sarebbe altrimenti potuta ottenere.
Allo stesso tempo però, senza una vera organizzazione, diventa difficile avere un vero impatto, una vera capacità di cambiamento. Lo vediamo in questi giorni in Egitto, dove la cacciata di Mubarak ha portato ad un periodo di grande instabilità e alla recente caduta del Presidente eletto Morsi. Ma la storia è ricca di rivoluzioni fallite, dal 18 Brumaio in avanti. In questo articolo dal Guardian di Seumas Milne – come anche nel più lungo e analitico pezzo di Malcolm Gladwell sul New Yorker – si spiega con cura come le rivoluzioni degli ultimi anni abbiano molto in comune con altre del passato, e come, a dispetto di tutta l’eccitazione per i social media e lo spontaneismo, si debba imparare dalla storia per poter durare nel tempo e cambiare veramente il mondo.

 

EGYPT, BRAZIL, TURKEY: WITHOUT POLITICS, PROTEST IS AT THE MERCY OF THE ELITES

di Seumas Milne

da Guardian

Two years after the Arab uprisings fuelled a wave of protests and occupations across the world, mass demonstrations have returned to their crucible in Egypt. Just as millions braved brutal repression in 2011 to topple the western-backed dictator Hosni Mubarak, millions have now taken to the streets of Egyptian cities to demand the ousting of the country’s first freely elected president, Mohamed Morsi.

As in 2011, the opposition is a middle-class-dominated alliance of left and right. But this time the Islamists are on the other side while supporters of the Mubarak regime are in the thick of it. The police, who beat and killed protesters two years ago, this week stood aside as demonstrators torched Morsi’s Muslim Brotherhood offices. And the army, which backed the dictatorship until the last moment before forming a junta in 2011, has now thrown its weight behind the opposition.

Whether its ultimatum to the president turns into a full-blown coup or a managed change of government, the army – lavishly funded and trained by the US government and in control of extensive commercial interests – is back in the saddle. And many self-proclaimed revolutionaries who previously denounced Morsi for kowtowing to the military are now cheering it on. On past experience, they’ll come to regret it.

The protesters have no shortage of grievances against Morsi’s year-old government, of course: from the dire state of the economy, constitutional Islamisation and institutional power grabs to its failure to break with Mubarak’s neoliberal policies and appeasement of US and Israeli power.

But the reality is, however incompetent Morsi’s administration, many key levers of power – from the judiciary and police to the military and media – are effectively still in the hands of the old regime elites. They openly regard the Muslim Brotherhood as illegitimate interlopers, whose leaders should be returned to prison as soon as possible.

Yet these are the people now in alliance with opposition forces who genuinely want to see Egypt’s revolution brought at least to a democratic conclusion. If Morsi and the Muslim Brotherhood are forced from office, it’s hard to see such people breaking with neoliberal orthodoxy or asserting national independence, as most Egyptians want. Instead, the likelihood is that the Islamists, also with mass support, will resist being denied their democratic mandate, plunging Egypt into deeper conflict.

Egypt’s latest eruption has immediately followed mass protests in Turkey and Brazil (as well as smaller upheavals in Bulgaria and Indonesia). None has mirrored the all-out struggle for power in Egypt, even if some demonstrators in Turkey called for the prime minister, Recep Tayyip Erdoğan, to go. But there are significant echoes that highlight both the power and weakness of such flash demonstrations of popular anger.

In the case of Turkey, what began as a protest against the redevelopment of Istanbul’s Gezi Park mushroomed into mass demonstrations against Erdoğan, ‘s increasingly assertive Islamist administration, bringing together Turkish and Kurdish nationalists, liberals and leftists, socialists and free-marketeers. The breadth was a strength, but the disparate nature of the protesters’ demands is likely to weaken its political impact.

In Brazil, mass demonstrations against bus and train fare increases turned into wider protests about poor public services and the exorbitant cost of next year’s World Cup. As in Turkey and Egypt, middle-class and politically footloose youth were at the forefront, and political parties were discouraged from taking part, while rightwing groups and media tried to steer the agenda from inequality to tax cuts and corruption.

Brazil’s centre-left government has lifted millions out of poverty, and the protests have been driven by rising expectations. But unlike elsewhere in Latin America, the Lula government never broke with neoliberal orthodoxy or attacked the interests of the rich elite. His successor, Dilma Rousseff – who responded to the protests by pledging huge investments in transport, health and education and a referendum on political reform – now has the chance to change that.

Despite their differences, all three movements have striking common features. They combine widely divergent political groups and contradictory demands, along with the depoliticised, and lack a coherent organisational base. That can be an advantage for single-issue campaigns, but can lead to short-lived shallowness if the aims are more ambitious – which has arguably been the fate of the Occupy movement.

All of them have, of course, been heavily influenced and shaped by social media and the spontaneous networks they foster. But there are plenty of historical precedents for such people power protests – and important lessons about why they are often derailed or lead to very different outcomes from those their protagonists hoped for.

The most obvious are the European revolutions of 1848, which were also led by middle-class reformers and offered the promise of a democratic spring, but had as good as collapsed within a year. The tumultuous Paris upheaval of May 1968 was followed by the electoral victory of the French right. Those who marched for democratic socialism in east Berlin in 1989 ended up with mass privatisation and unemployment. The western-sponsored colour revolutions of the last decade used protesters as a stage army for the transfer of power to favoured oligarchs and elites. The indignados movement against austerity in Spain was powerless to prevent the return of the right and a plunge into even deeper austerity.

In the era of neoliberalism, when the ruling elite has hollowed out democracy and ensured that whoever you vote for you get the same, politically inchoate protest movements are bound to flourish. They have crucial strengths: they can change moods, ditch policies and topple governments. But without socially rooted organisation and clear political agendas, they can flare and fizzle, or be vulnerable to hijacking or diversion by more entrenched and powerful forces.

That also goes for revolutions – and is what appears to be happening in Egypt. Many activists regard traditional political parties and movements as redundant in the internet age. But that’s an argument for new forms of political and social organisation. Without it, the elites will keep control – however spectacular the protests.

La frattura tra mercato e democrazia

In Editoriali on 01/07/2013 at 01:17

di Nicola Melloni

da Liberazione

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Il rapporto di JP Morgan che prende di mira le Costituzioni Europee troppo democratiche ed antifasciste e troppo basate su sistemi politici ed economici del secolo scorso è stato ben descritto dal Fatto Quotidiano ed ampiamento commentato su Repubblica da Barbara Spinelli e su Liberazione da Dino Greco. Mi pare però che ci sia un elemento mancante in questi ragionamenti, e cioè che JP Morgan ha sostanzialmente ragione. Attenzione! Non sto dicendo che la via indicata dalla banca d’affari sia quella giusta, tutt’altro. Ma il rapporto dice a chiare lettere che nel dopo-crisi questo tipo di mercato è irriconciliabile con la democrazia come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 60 anni circa.
Facciamo un rapido excursus storico per capire come si è evoluto nel tempo il rapporto tra democrazia e mercato, per renderci conto in che situazione ci troviamo ora. Tenendo ben presente che democrazia e mercato non sono due soggetti totalmente scissi uno dall’altro, ma sono invece due elementi in continua interazione, che si spingono, si uniscono ed a volte si respingono vicendevolmente. La loro unione, o scissione, è quella che ha creato i moderni sistemi politici occidentali. Il capitalismo si è sviluppato in un contesto non democratico, quando non proprio autoritario, in società inique in cui il diritto di voto era concesso solo ai ricchi ed in sistemi economici in cui l’accumulazione del capitale era l’unica variabile di rilievo. E con un regime internazionale imperniato intorno al libero scambio ed al gold standard, un sistema che risolveva gli squilibri economici con disoccupazione di massa e recessioni. Le cose cambiarono dopo la prima ed in particolare dopo la seconda guerra mondiale. Il trauma del conflitto, del fascismo, la minaccia socialista portarono ad una trasformazione fondamentale: le dinamiche interne – occupazione, crescita – divennero tutto d’un tratto, e per la prima volta, più importanti di quelle internazionali – cioè equilibrio dei conti. In parole povere, il nuovo sistema democratico portava ad un nuovo contratto sociale basato su redistribuzione del reddito dal capitale al lavoro, restrizione alla libertà movimento dei capitali, diritti non solo politici ma sociali. Un aumento dei diritti di cittadinanza, una diminuzione delle cosiddette “libertà” del mercato. D’altronde la democrazia, una novità del XX secolo, ha bisogno di voti e i voti si ottengono soprattutto con lavoro, reddito, qualità della vita.
Come ben sappiamo, però, a fine anni 70 le cose cambiarono nuovamente, il nuovo corso della globalizzazione neo-liberista riportò al libero movimento dei capitali, all’accumulazione dei profitti, allo schiacciamento dei salari. Nuovamente il pendolo si spostava a favore del capitale e contro il lavoro, in un trend, in maniera minore o maggiore, presente in tutto il mondo occidentale. Che non portò a drastici cambiamenti del sistema politico, capace di convivere con un capitalismo rampante soprattutto grazie al sistema del debito. Debito che cominciò ad esplodere proprio dagli anni 80 in avanti. Debito pubblico in Europa, debito privato nei paesi anglosassoni, perché in qualche maniera bisognava garantire degli standard di vita decenti agli elettori. Ma la crisi del 2007 ha portato alla fine di questo sistema, di questo tentativo di far convivere il capitalismo mondializzato con la democrazia nazionale. Come spiegato in maniera accurata da Dani Rodrik nel suo saggio sui limiti della globalizzazione, i mercati liberi e senza regole non sono compatibili con la democrazia e con la sopravvivenza dello stato nazionale. Ed è qui che entra in campo il rapporto di JP Morgan. Escludendo la soluzione utopica di un governo (democratico) mondiale, le soluzioni sono due: o un freno ai mercati e dunque alle opportunità di profitto e accumulazione del capitale; o un inesorabile riduzione dei contenuti democratici nei Paesi occidentali, e non solo. Che è in fondo quello che stiamo vivendo oggi nell’Unione Europea dove si è deciso che le crisi si curano a colpi di tagli di welfare, disoccupazione e diminuzione dei salari, esattamente come nel vecchio Gold Standard. Ma che è anche il modello di quei paesi come Brasile o Turchia dove la democrazia elettorale esiste, ma dove il governo prende decisioni sempre e comunque in favore dei grandi interessi economici. E che dunque, nonostante la diminuzione della povertà e il miglioramento delle condizioni di vita, scatenano rivolte popolari che nessuno aveva previsto e che chiedono un ruolo centrale per la democrazia e un freno al potere del capitale e del governo che lo rappresenta.
Insomma, siamo ad un bivio cruciale. La crisi ha sentenziato che il modello del capitalismo a debito, della democrazia finanziaria non è sostenibile. Il capitale ha riorganizzato in fretta i suoi interessi, la politica europea ha legato le mani agli Stati col fiscal compact e sta imponendo una colossale ristrutturazione dei rapporti economici, a cui seguirà inevitabilmente una riscrittura del dettato politico-costituzionale, esattamente come chiedono le grandi banche d’affari, ormai portavoce della nuova “razza padrona”. Non vi sono dubbi che un’organizzazione istituzionale di tipo Novecentesco non sia compatibile con disoccupazione di massa, salari bassi, peggioramento drastico delle condizioni di vita – quelle stesse condizioni che portarono a guerra e dittature nella prima metà del secolo scorso.
L’alternativa è una riscossa democratica, del tipo di quelle che seguirono al disastro economico-politico-militare della Grande Crisi e della Guerra. Quella che portò al Welfare State britannico, alle Costituzioni democratiche europee, agli accordi di Bretton Woods che contenevano il mercato nelle maglie della democrazia e, dunque, del bene comune.
Come sempre si tratta dell’eterno conflitto lavoro contro capitale: salario contro profitto, oligarchia contro democrazia, ineguaglianza contro welfare, queste sono le scelte strutturali cui ci troviamo davanti. Le banche, i governi conservatori, i tecnocrati hanno già scelto il loro modello, mentre gran parte della sinistra europea brancola nel buio, incapace di comprendere i grandi problemi del post-crisi. Col rischio di svegliarsi un giorno nel mondo della post-democrazia.

Il ritorno alle origini di Lula, il presidente operaio

In Da altri media, Internazionale, politica on 29/06/2013 at 05:00

di Simone Rossi

Alla vigilia della terza settimana di proteste in Brasile, la presidentessa federale Dilma Rousseff ha annunciato di voler avviare un processo di riforme che accolgano le richieste dei manifestanti indicendo un plebiscito per una fase costituente. Nel frattempo l’Esecutivo di cui è a capo ha promesso di investire cinquanta miliardi di real, pari a diciassette miliardi e mezzo di euro al cambio odierno, nel settore dei trasporti, che rappresenta uno dei fattori di malcontento tra la popolazione. Inoltre la presidentessa ha incontrato le sei confederazioni sindacali del paesi per confrontarsi sui temi quali il miglioramento dei servizi pubblici, sanità ed istruzione in testa, la lungo attesa riforma agraria, la riforma previdenziale e la riduzione della settimana lavorativa a 40 ore. L’atteggiamento aperto al dialogo tenuto dalla presidentessa sinora, tuttavia, non ha posto fine alle mobilitazioni il cui scopo è spingere il governo ad attuare riforme profonde ed a combattere la corruzione, mentre ha irritato l’opposizione di Destra, che dopo aver stigmatizzato i manifestanti ha cercato di strumentalizzarli in funzione anti-governativa, con il tentativo di forzare una svolta in senso autoritario.
In questo contesto di fermento politico è riemersa la figura carismatica di Luis Inácio da Silva, detto Lula, presidente del Brasile dal 2003 al 2010 ed esponente del Partito dei Lavoratori (PT) a cui appartiene anche Dilma Rousseff. Questo giovedì ha incontrato nella sede della sua fondazione, a San Paolo, alcuni rappresentanti del Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra, i famosi Sem Terra, e di alcune organizzazioni giovanili per discutere della situazione. Contrariamente a quanto molti si sarebbero attesi Lula, che da presidente aveva abbandonato alcune posizioni marcatamente di sinistra per adottare politiche di stampo socialdemocratico e concilianti con il Capitale brasiliano, ha invitato i giovani a proseguire la lotta in strada per ottenere dal governo federale le riforme sociali necessarie al progresso di più ampie fasce popolari e per affrontare quelle forze di centrodestra che si sono sempre opposte al cambiamento ed ancora oggi bloccano il processo riformatore in senso progressista.
Si tratta di un apparente ritorno alle origini per Lula, operaio metalmeccanico e sindacalista durante gli anni della dittatura militare (1964/85), quando fu tra i fondatori del Partito dei Lavoratori, sintesi delle esperienze del sindacalismo delle aree industriali del Sud-Est e delle comunità cristiane di base ispirate alla Teologia della Liberazione. Personaggio politico molto popolare e stimato a livello internazionale, Presidente per due mandati in cui il Brasile ha avuto una consistente crescita economica ed è assurto a potenza economica di rango mondiale, Lula si trova nella posizione di poter esercitare la propria influenza nel dibattito pubblico senza scendere a quei compromessi cui cedette durante la propria permanenza a capo del governo, che si sosteneva su una maggioranza parlamentare eterogenea comprendente i moderati del PMDB, uno dei tre principali partiti insieme al PT ed al conservatore PSDB. Dopo aver posto le basi per il cambiamento sociale nel Paese, sottraendo alla miseria ed alla povertà milioni di persone attraverso programmi di assistenza, ed aver accelerato il processo di integrazione economica e politica con i Paesi confinanti, liberando la regione del Cono Sud dalla bicentenaria ingerenza statunitense, Lula può ispirare e supportare il rinnovamento nel proprio paese in senso popolare e democratico, caldeggiando quelle riforme strutturali che proponeva da leader del PT e da candidato presidenziale (1989, 1994 e 1998) e che non ha portato a compimento una volta in carica.

Di seguito riporto un resoconto pubblicato sul sito Vermelho.org.br, portale di alcune associazioni di sinistra e del Partito Comunista del Brasile, PCdoB.

Lula convoca movimentos sociais para ir à ruas pelo Brasil

Ex-presidente e um dos principais atores políticos do Brasil, Luiz Inácio Lula da Silva assume o seu papel de liderança nos movimentos sociais que tomaram as ruas do país, em uma série de manifestações que chega à sua segunda semana. De sua base, na sede do Instituto Lula, o principal aliado da presidenta Dilma na elaboração de uma agenda política para a realização de um plebiscito, intensifica os encontros com os movimentos sociais.

O ex-presidente Luiz Inácio Lula da Silva recebeu, nesta capital, os integrantes dos movimentos sociais.

No mais recente encontro, na véspera, com jovens de grupos como o Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (MST), a União da Juventude Socialista (UJS), o Levante Popular da Juventude e o Conselho Nacional da Juventude (Conjuve), Lula ofereceu o diapasão para afinar o discurso dos movimentos sociais.

Em lugar da esperada mensagem de conciliação e o pedido de calma aos manifestantes, o momento é de “ir para a rua”, afirmou o ex-presidente. A reunião, no bairro do Ipiranga, em São Paulo não contou com a presença do Movimento Passe Livre (MPL), nem do Movimento dos Trabalhadores Sem Teto (MTST).

“O (ex-)presidente queria entender essa onda de protestos e avaliou muito positivamente o que está acontecendo nas ruas”, disse a jornalistas André Toranski, presidente da UJS, que conta majoritariamente com militantes do PCdoB.

Outro participante do encontro, que preferiu o anonimato, afirma que Lula “colocou que é hora de trabalhador e juventude irem para a rua para aprofundar as mudanças. Enfrentar a direita e empurrar o governo para a esquerda. Ele agiu muito mais como um líder de massa do que como governo. Não usou essas palavras, mas disse algo com ‘se a direita quer luta de massas, vamos fazer lutas de massas”.

Em nota publicada em seu perfil na rede social Facebook, na última quinta-feira, Lula já se mostrava favorável às manifestações ocorridas desde o último dia 13 em várias cidades do Brasil: “Ninguém em sã consciência pode ser contra manifestações da sociedade civil, porque a democracia não é um pacto de silêncio, mas sim a sociedade em movimentação em busca de novas conquistas”, declarou.

Em São Paulo, Lula apoiou a negociação entre o governo e os manifestantes, que reclamavam do aumento no preço da passagem de ônibus. Na ocasião, o ex-presidente demonstrou confiança no trabalho do prefeito de São Paulo, Fernando Haddad, ministro da Educação durante seu governo.

“Estou seguro, se bem conheço o prefeito Fernando Haddad, que ele é um homem de negociação. Tenho certeza que dentre os manifestantes, a maioria tem disposição de ajudar a construir uma solução para o transporte urbano”, afirmou. Apenas alguns dias depois, Haddad revogou o aumento de R$ 0,20 no preço da passagem.

Plebiscito

De sua parte, a presidenta Dilma também seguiu os conselhos do amigo e antecessor no cargo e vem promovendo, desde o início desta semana, uma série de encontros com os movimentos sociais. Na véspera, Dilma recebeu os representantes de oito centrais sindicais e dedicou 40 minutos da reunião para explicar aos dirigentes como serão norteadas as ações para os cinco pactos anunciados pelo governo – com vistas à melhoria dos serviços públicos – e destacou a importância de ser convocado um plebiscito no país para discussão da reforma política. Embora a presidenta não tenha sido explícita no apelo às centrais, a sua fala na abertura do encontro foi vista pela maior parte dos presentes como uma forma de pedir o apoio das entidades para as medidas divulgadas nos últimos dias.

A presidenta admitiu que é preciso aprimorar a interlocução com as centrais e disse concordar com as críticas das ruas sobre a qualidade dos serviços públicos. Afirmou, ainda, que a pressão das mobilizações está correta e ajuda na transformação do país. Participaram do encontro representantes da Central Única dos Trabalhadores (CUT), Central dos Trabalhadores e Trabalhadoras do Brasil (CTB), União Geral dos Trabalhadores (UGT), Nova Central Sindical de Trabalhadores (NCST) e Força Sindical, bem como Central Geral dos Trabalhadores do Brasil (CGTB), CSP-Conlutas e Central dos Sindicatos Brasileiros (CSB), além de técnicos do Dieese.

Os sindicalistas apresentaram os principais itens definidos na pauta traçada nos últimos dias com solicitações ao governo, tais como melhorias na qualidade do transporte público e redução das tarifas, mais investimentos na educação e na saúde, retirada de tramitação, no Congresso, do Projeto de Lei 4.330 – referente à regulamentação das atividades de terceirização, fim do fator previdenciário e aumento dos valores das aposentadorias, reforma agrária e redução da jornada de trabalho para 40 horas semanais. Dilma deixou claro que essa pauta será negociada como um todo e que o governo apresentará uma resposta até agosto.

Das ruas às urnas

Para Luiz Carlos Antero, jornalista e escritor, colunista e membro da Equipe de Pautas Especiais do sítio Vermelho.org, o plebiscito pela reforma política é uma das propostas que “podem surtir um maior impacto”. Em um debate mais amplo, segundo o analista, “pode contribuir para uma maior participação popular e para aprofundar a democracia no Brasil, destacando-se em especial aspectos como o do financiamento público de campanhas”.

“Entretanto, ainda mais que compreender o que se passa no Brasil no atual momento, é indispensável e urgente o esforço da apresentação de um afirmativo e unitário programa popular e democrático enquanto fio condutor das lutas de rua — para as quais qualquer pauta institucional e toda pausa na movimentação terá um sentido provisório e cumulativo, distante do improvável êxito do pensamento ou desejo de uma nova acomodação”, afirma.

Fonte: Correio do Brasil

Le rivolte che scuotono il mondo intero – 2

In Da altri media on 26/06/2013 at 09:15

GLOBAL PROTEST GROWS AS CITIZENS LOSE FAITHS IN POLITCS AND THE STATE

di Peter Beaumont

da The Observer

The demonstrations in Brazil began after a small rise in bus fares triggered mass protests. Within days this had become a nationwide movement whose concerns had spread far beyond fares: more than a million people were on the streets shouting about everything from corruption to the cost of living to the amount of money being spent on the World Cup.

In Turkey, it was a similar story. A protest over the future of a city park in Istanbul – violently disrupted by police – snowballed too into something bigger, a wider-ranging political confrontation with prime minister Recep Tayyip Erdogan, which has scarcely been brought to a close by last weekend’s clearing of Gezi Park.

If the recent scenes have seemed familiar, it is because they shared common features: viral, loosely organised with fractured messages and mostly taking place in urban public locations.

Unlike the protest movement of 1968 or even the end of Soviet influence in eastern Europe in 1989, these are movements with few discernible leaders and often conflicting ideologies. Their points of reference are not even necessarily ideological but take inspiration from other protests, including those of the Arab spring and the Occupy movement. The result has seen a wave of social movements – sometimes short-lived – from Wall Street to Tel Aviv and from Istanbul to Rio de Janeiro, often engaging younger, better educated and wealthier members of society.

What is striking for those who, like myself, have covered these protests is often how discursive and open-ended they are. People go not necessarily to hear a message but to take over a location and discuss their discontents (even if the stunning consequence can be the fall of an autocratic leader such as Egypt‘s Hosni Mubarak).

If the “new protest” can be summed up, it is not in specifics of the complaints but in a wider idea about organisation encapsulated on a banner spotted in Brazil last week: “We are the social network.”

In Brazil the varied banners underlined the difficulty of easy categorisation as protesters held aloft signs expressing a range of demands from education reforms to free bus fares while denouncing the billions of public dollars spent on stadiums for the 2014 World Cup and the Olympics two years later.

“It’s sort of a Catch-22,” Rodrigues da Cunha, a 63-year-old protester told the Associated Press. “On the one hand we need some sort of leadership, on the other we don’t want this to be compromised by being affiliated with any political party.”

As the Economist pointed out last week, while mass movements in Britain, France, Sweden and Turkey have been inspired by a variety of causes, including falling living standards, authoritarian government and worries about immigration, Brazil does not fit the picture, with youth unemployment at a record low and enjoying the biggest leap in living standards in the country’s history.

So what’s going on? An examination of the global Edelman Trust Barometer reveals a loose correlation between the ranking of a country on the trust scale and the likelihood of protests. The trust barometer is a measure of public confidence in institutions compiled by the US firm Edelman, the world’s largest privately owned PR company.

In 2011, at the time the Occupy movement was being born in Zuccoti Park on Wall Street, the UK and the US were both firmly placed at the bottom of the “distrusters” while Brazil topped the “trusters”. By this year Brazil had dropped 30 points on the table, while Spain and Turkey, which have both seen protests this year, were both in the distrusted category.

Paul Mason, economics editor of BBC2’s Newsnight and author of Why It’s Kicking Off Everywhere: The New Global Revolutions, has argued that a key factor, largely driven by new communication technologies, is that people have not only a better understanding of power but are more aware of its abuse, both economically and politically.

Mason believes we are in the midst of a “revolution caused by the near collapse of free-market capitalism combined with an upswing in technical innovation” – but not everyone is so convinced.

What does ring true, however, is his assertion that a driving force from Tahrir Square to Occupy is a redefinition of notions of both what “freedom” means and its relationship to governments that seem ever more distant. It is significant, too, that many recent protests have taken place in the large cities that have been most transformed by neoliberal policies.

Tali Hatuka, an Israeli urban geographer, whose book on the new forms of protest will be published next year, identifies the mass mobilisations against the Iraq war in 2003 as a turning point in how people protest. Hatuka argues that, while previous large public protests had tended to be focused and narrow in their organisation, the Iraq war protests saw demonstrations in 800 cities globally which encompassed and tolerated a wide variety of outlooks.

“Most recently,” Hatuka wrote in the journal Geopolitics last year, “this spirit has characterised the Arab spring and New York’s Occupy Wall Street, which were protests based on informal leadership and a multitude of voices.”

“Up to the 1990s,” she said last week, “protests tended to be organised around a pyramid structure with a centralised leadership. As much effort went into the planning as into the protest itself. And the [impact on the] day after the protest was as significant as the event itself. Now protest is organised more like a network. It is far more informal, the event itself often being immediate.”

Hatuka cautions against generalising too much – distinguishing between the events of the Arab spring, where mass protests were able to remove regimes, and protests in western democracies. But she does point to how the new form of protest tends to produce fractured and temporary alliances.

“If you compare what we are seeing today with the civil rights movement in the US – even the movements of 1989 – those were much more cohesive. Now the event itself is the message. The question is whether that is enough.”

She suspects it is not, pointing to how present-day activism – from the Iraq war demonstrations onwards – has often failed to deliver concrete results with its impact often fizzling out. Because of this, current forms of protest may be a temporary phenomenon and may be forced to change.

Another key feature of the new protests, argues Saskia Sassen, a sociology professor at Columbia University, New York, is the notion of “occupation” – which has not been confined to the obvious tactics of the Occupy movement. Occupations of different kinds have occurred in Tahrir Square, Cairo, in Gezi Park, Istanbul, and during widespread social protests in Tel Aviv, the Israeli capital, in 2011.

“Occupying is not the same as demonstrating. Many of the [recent] protests made legible the fact that occupying makes novel territory, and thereby a bit of history, using what was previously considered merely ground,” Sassen wrote recently. “Whether in Egypt, the US, or elsewhere, it is important that the aim of the occupiers is not to grab power. They were and are, rather, engaged in the work of citizenship, exposing deep flaws and wrongs in their polity and society.

“This is a very peculiar moment,” Sassen told the Observer. “This form of protest is very amorphous in comparison with the movements that came before.” She argues that one distinguishing factor is that many of the protest movements of the past decade have been defined by the involvement of what she calls “the modest middle class”, who have often been beneficiaries of the systems they are protesting against but whose positions have been eroded by neoliberal economic policies that have seen both distribution of wealth and opportunities captured by a narrowing minority. As people have come to feel more distant from government and economic institutions, a large part of the new mass forms of dissent has come to be seen as an opportunity to demonstrate ideas of “citizenship”.

“Often what people are saying is that you are the state. I’m a citizen. I’ve done my job. You’re not recognising that.”

Sassen’s belief that many of the recent protests are middle-class-driven appeared to be confirmed overtly – in the case of Brazil, at least – by President Dilma Rousseff, when she acknowledged that the new middle classes “want more and have the right to more”.

For an older generation of political theorists, as Sassen admits, not least those from a Marxist background, the current trends have sometimes been puzzling. “I remember talking to [British Marxist historian] Eric Hobsbawm – a dear friend. He asked me: ‘What’s up [with Occupy]?’ I said it is a very interesting movement. But his reply was: ‘If there is no party, then there’s no future.'”

Indeed, it was precisely this concern two years ago that led Malcolm Gladwell – in a controversial essay for the New Yorker, Small change: why the revolution will not be tweeted – to ask a similar question: whether networks of activists modelled on social media and with “weak tie-ins” can sustain themselves in the long run.

“The old pyramid way of organising protests does have its limitations, but so too do the new ways of organising,” says Hatuka. “Often it does not feel very effective in the long run. People will often go for a day or two and these protests are not necessarily offering an ideological alternative.”