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Il mito dell’efficienza nel privato

In Da altri media on 14/01/2014 at 14:30

di Simone Rossi

In questi ultimi tempi è tornata nell’agenda politica e nel dibattito pubblico la questione dell’alienazione dei (reisdui) servizi e beni pubblici; che si tratti dei Conservatori britannici o dei Democratici italiani, la soluzione alla crisi economica e per il rilancio dell’economia passa attraverso la vendita del patrimonio pubblico residuo. Da Royal Mail, Poste di Sua Maestá, al patrimonio demaniale italiano i governi sono intenzionati a (s)vendere quanto possibile, nonostante l’opinione pubblica dei rispettivi Paesi sia contraria. Sotteso a queste politiche, il cui obiettivo è ridurre la presenza dello Stato nella società e di ingrassare ulteriormente il grande Capitale, è il discorso secondo cui la gestione privata di beni e servizi di interesse pubblico sia mirata a fornire ai cittadini ed ai consumatori il miglior prodotto possibile al minor costo possibile. Un discorso che assume caratteri mitologici se si considera la realtà dei fatti, in cui l’interesse principale della aziende privatizzate, spesso operanti in regime di oligopolio o di monopolio, è la massimizzazione del profitto anche a scapito dell’efficienza e della qualità; basti pensare alle ferrovie britanniche, tra le più costose in Europa a fronte di un servizio tutt’altro che eccellente, o dei servizi idrici privatizzati in alcune città italiane, con un corollario di moti tra i consumatori infuriati.

Al tema dedica una riflessione il settimanale brasiliano Carta Capital, in una articolo pubblicato sul sito il 7 gennaio c.a., che merita attenzione. Riporto la traduzione di seguito:

“Stato inefficiente”, un mito mediocre

di Rafael Azzi

da Carta Capital

traduzione Simone Rossi

L’ideologia liberista propugna l’idea secondo cui l’iniziativa privata sia in grado di produrre beni e servizi in modo efficiente ed economico; per contro lo Stato, considerato inefficiente e corrotto, sarebbe semplicemente un ostacolo al buon funzionamento del mercato. Si tratta di un’ideologia di stampo manicheo, che proclama la dicotomia tra lo Stato cattivo ed il mercato buono. In molti casi, queste visione si mostra in accordo con la realtà e, quando messa in pratica da un certo tipo di governo, si trasforma in una profezia autoavverantesi.

Secondo la medesima logica, i dipendenti pubblici sono considerati corrotti e pigri. Si tratta di un pregiudizio diffuso e inconfutabile anche di fronte al fatto che esistono dipendenti pubblici esemplari nei vari settori e che nelle organizzazioni private ci sono lavoratori che adattatisi alla cultura aziendale riescono ad essere premiati pur evitando di lavorare o ricorrendo a metodi poco etici.

Alla base dell’argomento di chi sostiene questo punto di vista manicheo vi è la questione della stabilità. Per legge i dipendenti pubblici hanno diritto alla stabilità dell’impiego dopo aver trascorso un periodo di valutazione di tre anni. Questo fatto giustificherebbe il luogo comune secondo cui essi lavorano meno dei dipendenti delle aziende private. Tale spiegazione si basa sulla premessa per cui il principale motore dell’efficienza sul lavoro sia il timore di esser licenziati. In verità studi recenti dimostrano che questa idea non è corretta. Ci sono differenti motivazioni al lavoro. I principali stimoli, come la percezione di svolgere un incarico significativo, il riconoscimento da parte degli altri e la possibilità di progredire possono essere presenti o assenti tanto nel settore privato come nel pubblico impiego.

L’argomento di un mercato più efficiente in molti casi non trova fondamento. Anzi, in alcuni settori la logica mercantilistica sembra agire in modo contrario al principio di efficienza. Per quanto concerne la sanità, ad esempio, è possibile confrontare due sistemi ai poli opposti: gli Stati Uniti d’America e Cuba. Gli indici dell’aspettativa di vita e della mortalità infantile dell’isola caraibica e degli USA sono praticamente i medesimi. A fronte di ciò la spesa annuale pro capite per la sanità negli USA è di US$5’711 mentre Cuba spende US$251. In questo modo lo Stato cubano sostiene un costo per lo meno venti volte inferiore per ottenere un risultato equivalente a quello del settore privato nordamericano.

Questo succede perché lo Stato può investire là dove serve per affrontare direttamente le cause dei problemi e così facendo portare l’assistenza medica a chi più ne ha bisogno. Nel 2001 una commissione del parlamento britannico visitò l’isola caraibica e riferì che l’esito della politica sanitaria locale era dovuto alla forte enfasi sulla prevenzione delle malattie ed all’impegno a fornire un servizio medico diretto alle comunità locali. Tale procedimento produce risultati migliori con meno risorse. Il mercato insegue costantemente la logica della massimizzazione del profitto, che non sempre si mostra la più efficace per affrontare i problemi sociali; nelle parole di Bill Gates: “capitalismo significa che si fa più ricerca sulla calvizie maschile che su malattie come la malaria.”

Nel caso dell’ideologia liberista al potere, molte volte ciò che succede è che essa diviene una profezia che si autoavvera. Partendo dal principio per cui lo Stato è inefficiente e corrotto consegue che lo Stato investe poco, paga male i propri dipendenti ed indebolisce i servizi pubblici. Lo scarso riconoscimento e le cattive condizioni di lavoro generano insoddisfazione e scioperi. Le paralisi a loro volta diventano un argomento in più per affermare che il servizio pubblico è intrinsecamente di bassa qualità.

È il caso, ad esempio, del sistema carcerario brasiliano. I governi recenti hanno investito poco in questo campo e non si sono interessati al rinnovamento del sistema detentivo medioevale del Paese. Così anziché prendere le redini della situazione, lo Stato escogita una soluzione di rapido effetto e che soddisfa tutti: l’iniziativa privata è tirata in ballo per poter finalmente risolvere la questione, essendole affidato dallo Stato il compito di costruire ed amministrare le case di pena. Sono in molti a guadagnare da questo, meno la società: i politici che esternalizzano il problema e gli imprenditori che ricevono il denaro direttamente dal Governo.

Un altro caso da menzionare è quello del trattamento dei tossicodipendenti. Mentre molti Centri di Assistenza Psichico-sociale (CAPS) sono trascurati, l’Esecutivo propone come soluzione l’internamento in comunità terapeutiche private. In questo caso va osservato che non esiste nemmeno una “logica di mercato” propriamente detta che operi secondo il principio di competizione e libero mercato. Carcerati e tossicodipendenti non possono scegliere il servizio migliore e sono portati nelle carceri e nelle comunità terapeutiche in maniera coercitiva. Non esiste neanche una competizione sul costo del servizio, dal momento che esso è sostenuto da sussidi governativi.

Così, si osserva che il mercato può anche operare in forma contraria all’interesse collettivo. Le istituzioni carcerarie e terapeutiche private hanno l’interesse ad ottenere il maggior numero di internamenti, senza che ciò comporti un miglioramento del servizio offerto. In questo modo la dinamica degli interessi genera una pressione degli operatori del settore sul governo affinché inasprisca le leggi sulla restrizione della libertà ed incentivi l’internamento forzato per consumatori di droghe. Oltre a ciò, la recidività dei carcerati e dei tossicodipendenti è benefica per il mercato e controproducente per la società. Studi affermano che, nel caso di internamento, il tasso di recidiva tra i tossicodipendenti è superiore al 90% dei casi.

Può anche esser mostrata la falsità dell’argomentazione per cui l’esternalizzazione può esonerare lo Stato dalle proprie responsabilità. In un’istituto pubblico, sia una prigione o un CAPS, lo Stato è direttamente responsabile per il salario dei dipendenti e per la manutenzione dei servizi. Nel caso delle comunità terapeutiche e delle case di pena private il Governo paga un contributo in base al numero di carcerati e di pazienti. In questo contributo deve rientrare oltre ai costi fissi per i salari e per la manutenzione un certo margine di profitto affinché gli operatori privati di interessino ad offrire tali servizi.

È necessario analizzare puntualmente le situazioni in cui lo Stato sostiene costi maggiori per fornire direttamente i servizi pubblici. Nella maggior parte di questi casi, i costi più elevati sono dovuti alle attività per garantire la trasparenza. I dipendenti devono avere la qualifica necessaria ed essere assunti attraverso concorsi pubblici e la spesa pubblica è giustificata e controllata attraverso bandi pubblici di appalto e pubblicità dei conti. Tale trasparenza ha come obiettivo di evitare atti indebiti ed arbitrari, rappresentando la condizione necessaria per il controllo sulle pratiche disoneste e scorrette. Nelle organizzazioni private che forniscono servizi i dipendenti sono scelti dall’azienda e l’uso del denaro pubblici non è controllato nella medesima forma rigida applicata per il monitoraggio delle spese nell’ambito pubblico.

Possibili soluzioni a questo problema potrebbero essere un controllo ed una vigilanza rigida esercitati dallo Stato sulle imprese affidatarie dei servizi pubblici. Pertanto, si giunge ad una contraddizione. Affinché si abbia una buona vigilanza dello Stato, il Governo dovrebbe dotarsi di più infrastrutture, pagare più dipendenti, sostenere maggiori costi di manutenzione in aggiunta agli altri investimenti. Inoltre, se la convinzione dei liberisti è che lo Stato sia intrinsecamente inefficiente e corrotto, a cosa servirebbe il monitoraggio? Questa è una contraddizione del discorso liberista. In realtà, in molti casi invece di divenire più efficiente lo Stato diviene il migliore collaboratore che il privato potrebbe avere.

La nozione dello Stato come luogo privilegiato della corruzione è sostenuta analogamente da pregiudizi ideologici. In verità si può affermare che lo Stato può essere efficiente ed il mercato corrotto, non essendoci alcuna relazione intrinsecamente univoca tra questi termini. La corruzione dello Stato è un problema reale che deve esser combattuto attraverso azioni di trasparenza e di accesso ai conti da parte della società. Secondo un rapporto prodotto dalla FIESP (Federazione delle Industrie dello Stato di San Paolo), il Brasile perde tra i 50,8 e gli 84,5 miliardi di real (R$) all’anno a causa della corruzione nelle istituzioni. Ciononostante la corruzione non è un’esclusiva dello Stato. Per quanto concerne la frode fiscale, classificata come corruzione privata, una ricerca dell’organizzazione britannica Tax Justice Network indica perdite maggiori per il Paese, intorno ai US$280,1 all’anno.

Pertanto, il mito del governo inefficiente e corrotto è un discorso ampiamente diffuso perché giova a molti gruppi, inclusi quelli che fanno profitti sulle spalle dello Stato medesimo. È necessario determinare politiche pubbliche orientate a ciò che sia meglio per la società nel suo complesso, senza l’interferenza indebita de ideologie e pregiudizi creati e corroborati dal senso comune.

Vajont. Avere cinquanta anni e non mostrarli

In politica on 09/10/2013 at 00:35

di Simone Rossi

Il 9 ottobre del 1963 alle ore 22:39 i paesi ed i borghi di Frassègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè ed Erto, nel comune di Erto e Casso (PN), Longarone, Pirago, Maè, Villanova e Rivalta, nel territorio di Longarone (BL) furono spazzati da un’onda generata nel bacino della diga del Vajont. Danni ingenti furono causati nei comuni limitrofi e nel capoluogo, Belluno. I morti accertati furono 1910.

Forzando un’antropizzazione, potremmo affermare che la strage del Vajont oggi compia cinquanta anni e non li dimostri. Si tratta di una vicenda relativamente lontana nel tempo, in un’Italia profondamente differente da quella odierna, nel pieno di un forte sviluppo economico, dove governava la Democrazia Cristiana ed il principale partito d’opposizione era quello comunista e dove i primi vagiti della lotta per i diritti delle donne non aveva ancora scalfito una cultura patriarcale che traeva linfa dalla morale cattolica dominante. Una vicenda che è tuttavia attuale nel suo complesso di arroganza del potere ed intrallazzi tra potentati economici e politica, nell’insofferenza di chi comanda verso il dissenso e nella subalternità dei mezzi di informazione e della magistratura agli interessi di chi detiene le redini dell’economia e della politica. Tale attualità trova il suo momento più alto nel paragone con la ventennale lotta dei valsusini contro la realizzazione delle infrastrutture per l’alta velocità ferroviaria, ma esiste anche nelle decine di conflitti piccoli e grandi per la difesa della salute umana, della pace e del territorio; come i casi della base Dal Molin di Vicenza, del Terzo Valico nella provincia di Alessandria, delle discariche a Napoli e nel Lazio, dei depositi di scorie radioattive in Piemonte ed in Basilicata, del ponte sullo Stretto di Messina a cavallo tra Calabria e Sicilia o del MUOS in Sicilia.
In quel principio di anni Sessanta e nei decenni successivi i nostri rappresentanti nelle istituzioni hanno ammantato di parole altisonanti quali sviluppo, opera strategica e progresso, i progetti infrastrutturali la cui principale strategicità risiede negli interessi di chi spera di trarne un vantaggio o un profitto, non di rado a scapito della comunità; e per chi si oppone in nome del proprio territorio, della propria salute o semplicemente del buon senso interviene dapprima la macchina del fango a mezzo stampa che li bolla come passatisti, poi perturbatori della quiete pubblica e via crescendo fino alle accuse di terrorismo o di fiancheggiamento. Allora fu la giornalista Tina Merlin ad affrontare le maldicenze, le minacce e le denunce, perché fastidiosa nella sua determinazione a dar voce ai dubbi ed alle rimostranze di chi metteva in guardia dalla possibile tragedia, con l’aggravante di essere comunista ed al di fuori dal posto determinatole dalla società in quanto donna. Oggi in questo principio di secolo tocca agli esperti, agli intellettuali ed ai giornalisti che prima ancora del possibile danno ambientale mettono in guardia dallo stupro della democrazia e della libertà di espressione messo in atto dalle istituzioni per zittire il dissenso. Infine, accade la tragedia, imprevedibile solo per chi vuole essere sordo e cieco a tutti i costi: una frana in un invaso artificiale che crea un’onda alta duecento metri e si schianta sui paesi sottostanti, il prosciugamento delle falde nella valle attraversata dal treno, la contaminazione del suolo zeppo di rifiuti pericolosi, l’impennata dei casi di cancro nei dintorni dello stabilimento. Ed eccole quelle facce in processione, con l’espressione compunta, le parole di circostanza come se non fossero politicamente e moralmente responsabili dell’accaduto, assistiti in questa messa in scena dalle firme del giornalismo, meretrici sempre a loro servizio.
Il ricordo di quella tragedia annunciata, figlia dell’avidità e della corruzione, è doveroso in questo cinquantesimo, per rispetto delle vittime e dei sopravvissuti ma anche in solidarietà alle decine di migliaia di italiani ed italiane che attivamente si oppongono ad opere costose, pericolose, dannose o inutili. Nulla è stato imparato da quella vicenda, in ogni angolo del Belpaese è latente un Vajont. Pertanto a dieci lustri dalla tragedia non possiamo non dirci tutti vajontini e longaronesi.

Quando tangentopoli sbarca nella mitteleuropa

In Fin de parti(e), Internazionale on 17/06/2013 at 08:04

Riceviamo e pubblichiamo un articolo sulla vicenda giudiziaria che ha colpito l’esecutivo della Repubblica Ceca.

Quando tangentopoli sbarca nella mitteleuropa
di Elio Rampino*
Nel momento in cui la commistione fra affari e politica raggiunge i livelli più alti nella storia della Repubblica Ceca, facendo registrare un tasso di corruzione da mettere in ginocchio ancora più della crisi in atto l’economia e le tutele sociali del Paese, ecco concretizzarsi un’azione di polizia che fa tremare i palazzi del potere.
Il 13 giugno 2013 resterà una data che questo Paese non scorderà facilmente!
Dopo circa un anno e mezzo di indagini della Procura di Olomouc, segnate da pedinamenti ed intercettazioni ambientali, la polizia con un blitz che per spettacolarità ed impiego di uomini e mezzi non ha nulla da invidiare a quelli nei confronti delle cosche mafiose, è entrata nelle sedi del palazzo del governo e di alcuni ministeri, arrestando funzionari di primo piano come la capo dell’ufficio e braccio destro del premier Peter Nečas, Jana Nagyová, suoi collaboratori come Marek Šnajdr ed ex ministri.
Da fonti di stampa locale, l’irruzione ha riguardato anche gli uffici dell’ex capo dell’intelligence militare ed attuale presidente delle riserve materiali dello Stato e dell’ex vice presidente dell’Avvocatura di Stato.
L’inchiesta che è partita dal controllo delle attività di alcuni dei più importanti lobbisti come Janoušek e Rittig, è finita poi per toccare i livelli politici ed istituzionali.
Si parla che dalle perquisizioni a più di trenta abitazioni, siano stati trovati circa 150 milioni di corone e decine di chili d’oro di provenienza fraudolenta.
I reati contestati, anche se ufficialmente il capo della polizia non si è ancora espresso nel merito dato che l’operazione non è finita, andrebbero dal riciclaggio, all’abuso di potere, agli appalti pubblici fraudolenti, all’acquisizione di benefit, agli interessi privati in atti d’ufficio, tutti reati legati alla corruzione.
Al momento il governo di centrodestra non ha ritenuto opportuno presentare le dimissioni in Parlamento, anche se il coinvolgimento del premier e del suo partito sembrerebbe un fatto acquisito, mentre i socialdemocratici, maggiore partito di opposizione, hanno preannunciato una mozione di sfiducia.
Che un Paese delle attuali moderne democrazie occidentali sia alle prese con il cancro della corruzione, purtroppo non fa nemmeno più notizia, ma vale la pena spendere qualche parola sullo stato di salute dei sistemi in generale e sulle diverse modalità con cui la così detta società civile e la classe dirigente lo affrontano.
Che ormai esista un problema di etica politica e di legittimazione delle istituzioni in tutta Europa, è innegabile, come evidente risulta la conseguente crescente disaffezione della società verso i partiti politici e la partecipazione alla vita democratica.
Come un cane che si morde la coda, meno la gente partecipa alla vita pubblica, più si lascia spazio alle attività corruttive e d’altra parte più si fondono gli affari con la politica e meno i cittadini sono propensi ad occupare gli spazi democratici.
Molto a mio avviso dipende anche dallo stato di subalternità che i cittadini europei avvertono verso le decisioni delle strutture economiche di un’Unione Europea così concepita, dalla B.C.E. al F.M.I. ai banchieri ed agli operatori finanziari, che imponendo dall’alto sia l’economia che le modalità di sviluppo delle relazioni sociali, svuotano di valore la scelta elettorale.
Per questo non è più rinviabile la costituzione di un’Europa politica in grado di controllare i processi economici, che potesse rendere finalmente milioni di persone partecipi del loro destino. Altra questione è invece quella che riguarda il modo di affrontare questi problemi che dipende principalmente dalla diversità antropologica e culturale dei diversi popoli.
Qui in Repubblica Ceca, nonostante la polizia non abbia usato veramente alcun riguardo verso i palazzi del potere, nessuno si è sognato di far riferimento ad un complotto, tantomeno ad un conflitto di poteri fra magistratura ed esecutivo.
Un modo di reagire al quale noi italiani non siamo più abituati, che parte certamente da una formamentis culturale più generale, fino ad arrivare a toccare le corde della classe dirigente.
Qui tutti i politici coinvolti nello scandalo si sono rimessi fin dalle prime dichiarazioni al giudizio della magistratura, confidando di poter dimostrare nelle sedi opportune la propria estraneità, mentre da noi ci si affanna tutt’ora ad offrire salvacondotti di qualsiasi genere a leader politici pluripregiudicati che si sono macchiati dei reati più infamanti, anche contro il patrimonio dello Stato e di conseguenza dei suoi stessi concittadini, come l’evasione fiscale.
Unica critica di comportamento da muovere alla pari della nostra classe politica, è quella che riguarda i partiti che al momento sono fuori dalla bufera, i quali non rinunciano a speculazioni politiche di dubbio valore.
Come se ciò che emerge non riguardasse il sistema nel suo complesso che se dovesse implodere tirerebbe a fondo tutti, facendo solo macerie della democrazia.
Sul versante della capacità della classe politica di elevarsi con uno sguardo più complessivo e lungimirante, pare quindi che al momento dobbiamo rassegnarci ad un’uniformità di comportamenti di basso profilo.

*presidente ANPI-CZ