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Piazza Taksim tra Occupy e la Primavera Araba

In Editoriali on 04/06/2013 at 16:15

di Nicola Melloni

da Liberazione

Le proteste a Istanbul dominano ormai tutte le prime pagine dei giornali italiani ed esteri. Sono l’ennesimo episodio di manifestazioni e rivolte che ormai divampano in tutta Europa e non solo. Dopo gli Indignados alla Puerta del Sol, Occupy Wall Street a Zuccotti Park, le dimostrazioni di Syntagma e gli scontri di piazza Tahrir, siamo ora alla rivolta di piazza Taskim. Ne parliamo con Evrim Gormus, dottoranda alla Washington University di Seattle e docente di Economia Politica Internazionale all’Università Bilgi di Istanbul.

Iniziamo da quello che sta succedendo in piazza Taksim. Perché proprio ora? Sappiamo che la protesta nasce dalla difesa di uno spazio verde, ma ci sono altre ragioni che hanno portato alle dimostrazioni di questi giorni? E perché la polizia ha reagito così duramente?

Le dimostrazioni sono iniziate in maniera spontanea, inizialmente su piccola scala, contro la demolizione del parco di Gezi, l’unica area verde di piazza Taksim. Piazza Taksim ha un significato particolare nella storia turca, essendo stata teatro nel passato di molte manifestazione politiche. La distruzione del parco è parte di un progetto molto controverso che prevede che la parte pedonale della piazza sia circondata da hotel, residence e aree commerciali, oltre la ricostruzione di una caserma dell’esercito ottomano demolita nel 1940.
Le controversie nascono dal fatto che il cosiddetto “progetto Taksim” è assai poco trasparente, senza nessuna consultazione della cittadinanza. Le ragioni della protesta sono dunque quelle di una popolazione che vuole essere consultata e ascoltata perché si sente esclusa dalla politica.
Per altro, quello che ha trasformato le piccole dimostrazioni iniziali in una vera e propria rivolta politica è stato l’uso eccessivo della forza da parte della polizia. Una cosa che non sorprende, ma che anzi riflette lo stile politico dell’Akp (il Partito della Libertà e della Giustizia di Erdogan) che usa il mandato elettorale per reprimere tutti i movimenti di opposizione. I manifestanti sono stati subito tacciati di essere terroristi e sabotatori ma così facendo le manifestazione di Taksim sono diventati un collante per tutti quelli che si oppongono alla politica muscolare di Erdogan.

In Italia le idee e le immagini che abbiamo sulla Turchia sono tutt’altro che chiare. L’economia turca cresce e prospera mentre l’Occidente è in crisi. Allo stesso tempo però il sistema politico ci appare confuso, alcuni considerano Erdogan un democratico, altri un islamista. Quale è la tua prospettiva sulla modernizzazione della società turca e sulle sue ricadute sociali?

L’Akp è andato al potere nel 2002 ed alle ultime elezioni ha conquistato il 49.5% dei voti, con una agenda politica basata su democratizzazione e apertura verso l’Europa e con slogan che rimandano all’Islam moderato e ai democratici islamici. La crescita economica ha senza dubbio contribuito a rinsaldare la legittimità del governo di Erdogan e alla nascita del cosiddetto modello turco nel Medio Oriente. L’Akp ha il merito storico di aver ricondotto i militari sotto il controllo civile ma quello che è stato poco compreso in Occidente è che il potere civile è una condizione necessaria ma non sufficiente per la democratizzazione del paese. Erdogan ha represso ogni forma di opposizione, amputando in questa maniera le riforme politiche.
Economicamente, l’Akp, che è andato al potere a seguito della crisi economica del 2001, ha semplicemente adottato un programma neo-liberal di disciplina fiscale. Con un discreto successo in termini di crescita economica – che in Turchia come altrove è diventata una ossessione – ma tralasciando completamente la dimensione sociale della crescita.
In questo senso, la protesta di Gezi è anche una rivolta contro il modello neoliberale che porta alla trasformazione degli spazi urbani, a discapito del verde e degli spazi sociali. E dunque le proteste di questi giorni hanno senza dubbio qualche punto di contatto con i movimenti di Occupy in Occidente, perché sono anche e soprattutto una lotta contro il modello economico dominante.

Dunque vedi una parziale continuità con i movimenti europei. Pensi ci sia anche qualche punto di contatto con la Primavera Araba di cui in Occidente abbiamo capito ben poco e di cui tu invece sei esperta, avendola vissuta in prima persona a piazza Tahrir?

Io non penso sia possibile parlare di Primavera Turca in continuità con la Primavera Araba. Non si può negare che Erdogan goda di una forte legittimazione popolare e che la Turchia, nonostante le varie difficoltà, sia stata una democrazia, seppure sui generis, dal 1950. Le rivolte arabe sono avvenute in contesto diversissimo, contro dittatori sanguinari e sono sfociate in massacri di massa. Nessuno, al momento, chiede un cambiamento di regime in Turchia, la protesta è contro Erdogan e il suo stile politico muscolare e che esclude tutte le minoranze.
Ci sono però alcune somiglianze con piazza Tahrir che non vanno sottovalutate e che valgono per i processi di legittimazione di tutti i potenti, in Turchia come nei paesi arabi ma anche nel resto del mondo. Possiamo chiamarlo il potere dei cittadini ordinari. In Egitto, la più grande organizzazione dell’opposizione, i Fratelli Islamici, non erano inizialmente presenti in piazza e hanno solo beneficiato del processo messo in moto da altri – e per questo sono accusati di aver rubato la Rivoluzione. Anche in Turchia i dimostranti si sono organizzati in maniera autonoma, attraverso i propri canali e l’utilizzo dei social media come canali di comunicazione politica, mentre i partiti tradizionali sono assenti.

Quindi la sinistra turca non è protagonista delle manifestazioni di questi giorni?

La sinistra, in Turchia come altrove, è purtroppo in difficoltà. Il principale partito di opposizione, il Chp (il Partito Popolare Repubblicano) si definisce socialdemocratico, salvo poi spesso rifarsi ad una retorica nazionalista. La sinistra non è rappresentata nella politica turca, soprattutto a causa di una legge elettorale che ha una soglia di sbarramento del 10% che si accompagna ad annosi problemi organizzativi e politici. La rivolta di Gezi non rappresenta nessun partito politico, ma ha sicuramente un impatto positivo sulla società turca che comincia a chiedere più trasparenza e più partecipazione. Le ricadute sul sistema politico le cominciamo già a vedere in questi giorni, con migliaia di manifestanti sotto i palazzi della Tv che continua a trasmettere documentari sui delfini, programmi di cucina e soap opera mentre nelle nostre piazze vengono usati i gas lacrimogeni per fermare i manifestanti. Finalmente il popolo ha cominciato a gridare “Il Re è nudo”.

  1. L’autodeterminazione dei popoli é al di sopra di ogni discussione politica.
    Ogni influenza esterna é deleteria. Ogni popolo deve scegliere e si merita il governo che ha.

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