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L’Argentina e gli avvoltoi della finanza

In Capitalismo on 31/07/2014 at 08:44

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La bancarotta argentina è uno dei fatti più scandalosi a memoria d’uomo, l’ennesimo colpo alla credibilità non certo del paese Latino-Americano, assolutamente incolpevole, quanto del sistema finanziario internazionale e dell’Occidente tutto.

Sui giornali si legge del secondo fallimento in 13 anni, e ovviamente è già caccia aperta a Cristina Kirchner, la presidente argentina colpevole soprattutto di una politica estera troppo indipendente per i gusti di Washington e dell’establishment occidentale. La realtà è profondamente diversa.
Il fallimento del 2001 fu dovuto alle assurde politiche di dollarizzazione dell’economia volute dagli iper-liberisti Menem e Caballo, con l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale e degli USA. Come in tutti i casi di fallimento, aveva portato ad una ristrutturazione del debito argentino, accettata dal 90% dei creditori. Il vecchio debito era stato scambiato per un nuovo, ad un terzo del valore iniziale, con l’emissione di nuovi bond legati alle performance dell’economia argentina. Fino alla crisi del 2007, con il PIL in crescita al ritmo dell’8% annuo, anche i creditori avevano visto le loro entrate salire – un accordo saggio che spingeva i creditori ad investire nell’economia reale.
Un 10% dei creditori però non ha accettato il restructuring. Si tratta di hedge fund che non accettavano il fallimento – un avvenimento più che normale nell’economia di mercato – e volevano indietro tutti i soldi. Anzi, non solo. Ovviamente han pensato bene di speculare, facendo manbassa di titoli argentini falliti presso altri istituti finanziari, pagandoli una percentuale irrisoria del loro valore per poi chiedere il pagamento al 100% al governo di Buenos Aires.
Si sono rivolti ad un tribunale americano che ha stabilito uno dei più inquietanti precedenti in materia. Usando disinvoltamente la clausola del cosiddetto pari passu che richiede che tutti i creditori siano trattati nella stessa maniera, la corte ha deciso che siccome il 90% aveva ottenuto il 100% dell’accordo fatto (cioè il 30% del valore reale), anche il 10% rimanente dovesse avere il 100% dei propri bond (e cioè il 100% del valore reale). Una assurdità logica ancor prima che giuridica: i creditori, in questa maniera, vengono trattati in maniera diseguale, e l’Argentina avrebbe forse dovuto non pagare nulla per evitare di cadere nella trappola degli azzeccagarbugli a stelle e strisce.
Non solo: in questa maniera si getta nel caos l’intero sistema della bancarotta. Nessun creditore, davanti ad una sentenza di questo genere, avrà mai interesse a trovare un accordo col debitore, ma pretenderà sempre il risarcimento completo. Un nuovo incredibile bail-out del sistema finanziario per via legislativa, un premio per il moral hazard degli hedge fund speculativi.
In pratica non esiste più il rischio per questi investitori. Si possono mettere i soldi in qualsiasi tipo di attività, succhiarne i profitti e in caso di fallimento riavere il 100% del proprio capitale. Esattamente come nel 2007, la finanzia incassa, i cittadini pagano.
Ed arriviamo ad oggi. L’Argentina è perfettamente solvente. I soldi per il pagamento degli interessi sul debito riconosciuto – quello nuovo, a scadenza 2033 – sono stati versati in banca, per pagare i creditori. Ma sono stati bloccati dai giudici americani, per dare il via al pagamento agli avvoltoi degli hedge fund. Ed il non pagamento vuol dire bancarotta. Un default tecnico, imposto dalla (in)giustizia americana, non certo causato da Buenos Aires, e tantomeno dalla Kirchner, che ha ereditato questo debito e non lo ha certo creato.
A 7 anni dalla grande crisi finanziaria di cui tuttora paghiamo le conseguenze, nulla è veramente cambiato. Gli avvoltoi di Wall Street fanno ancora il bello ed il cattivo tempo, speculando, uccidendo l’economia reale e la vita di Stati e cittadini. Impuniti, anzi, con l’appoggio dei loro compari nelle aule dei tribunali.

Chiedere scusa, scusa, scusa alla sinistra

In Fin de parti(e) on 10/06/2014 at 18:48

carla-bruni-oh-nooo

Di @MonicaRBedana

La Spinelli da mandare al rogo oppure in Europa, la solita parte della dirigenza di Sel col solito culo appoggiato su trentacinque comodi cuscini ma scoreggiando in faccia alla militanza di base, Padova ai leghisti (che non è colpa loro ma nostra, che siamo, uno su tre, neri dentro e bianchi immacolati fuori), ‘sti democrats al governo, che non ricordo di aver votato e che prolungano un’idea di sinistra a destra come pane quotidiano. I mondiali di calcio, che li odio anche per l’ennesima rivoluzione tradita (fateli sempre in Germania, tra i solo ricchi, dove non protesta mai nessuno).

Ho il cuore rosso in una centrifuga (forse anche l’altro) ed è ora di chiedere scusa.

Il genio veggente di Eduardo Haro Tecglen l’ha scritto nel 2000 per Felipe González, ma è applicabile a noi, ora, qui, subito, senza rinvii. Rumore di unghie sul vetro.

(L’originale lo trovate qui http://elpais.com/diario/2000/03/14/radiotv/952988409_850215.html , la traduzione è mia. Leggeremo mai un pezzo così su Repubblica?)

Chiedere scusa, scusa, scusa
di Eduardo Haro Tecglen da “El País”, 14 marzo 2000

Un giorno chissà chi riuscirà a vedere Felipe González, in abito talare viola penitente, chiedere scusa. Come il Papa. Però il Papa ormai non ha quasi più credenti – ha società, interessi, abitudinari- e non li avrà nemmeno Felipe González. O il suo pronipote. Chiedere scusa per avere fatto a pezzi la sinistra. Per avere inventato la cultura dell’accumulazione e avere cambiato il senso al lavoro, per i GAL(1) e per essersi creato attorno uno sciame di ladri; per avere abbandonato l’Internazionale, il pugno chiuso; per avere divorato gli antenati del partito operaio, e dato sepoltura agli insegnamenti di Pablo Iglesias (2) e allo sforzo lungo cent’anni dei socialisti, e a ogni ricordo del Frente Popular (3); e (senza dissotterrare l’ascia della guerra civile) per non avere sostentato l’idea del sacrificio che è costato mantenere una sinistra. Per avere alzato gli affitti, compresso i salari, fatto mordere il freno alle pensioni, imprigionato la previdenza sociale. Per avere dichiarato la guerra al partito comunista. Per avere attaccato quelli che volevano processare Pinochet (4), per avere mandato una nave alla guerra del Golfo, per avere trasformato il pacifismo della sua prima campagna elettorale nella prima guerra della NATO condotta da uno dei suoi ministri – e nonostante tutto l’ha mandato a chiedere voti anche la settimana scorsa- per avere tramutato in generale il guardia civil Galindo de Intxaurrondo (5), per essersi messo al servizio del neocapitalismo, per avere creduto a Margareth Thatcher. Per immaginarsi di sinistra ma credendo che la destra lo avrebbe ammirato e preferito alle proprie icone. Per essersi circondato di mediocri quando era al Governo e quando stava per smettere di governare; per avere concesso le primarie e poi, dopo, averle annullate; chiedere scusa per (e a) Borrel, Almunia, Morán (6). Scusa per l’euro, per la globalizzazione, la mondializzazione, gli accordi di Schengen, le navi di immigranti andate a picco, per avere mantenuto le scuole cattoliche, private e concertate, per non essere arrivato in tempo a dare una legge alle coppie di fatto, per non avere concluso le leggi sull’aborto. Scusa per essersi scontrato con la libertà di stampa, per avere influenzato pesantemente la radio e la televisione. Scusa per avere fatto credere che tutto ciò fosse la sinistra, con i suoi conversi e i suoi amanuensi e i suoi accoliti e la sua immensa superbia politica. A casa sua avrà, suppongo, il video del giorno in cui ha vinto le prime elezioni, e la Spagna brindava, e tirava fuori lo champagne e le vecchie canzoni e le bandiere e le sue risate perdute. Altri tempi. Quella tappa è finita domenica.

N.d.T.:
(1) GAL, Grupos Antiterroristas de Liberación, il terrorismo di Stato contro il terrorismo dell’ETA, creato durante il governo di Felipe González.
(2) Pablo Iglesias Posse, il fondatore del Psoe e del sindacato UGT.
(3) Frente Popular de España, coalizione politica che raggruppava, nel anni ’30, comunisti, socialisti, repubblicani.
(4) il giudice Baltasar Garzón, che ottenne l’arresto di Pinochet a Londra nel 1998.
(5) uno dei responsabili del GAL, condannato poi per omicidio e inabilitato.
(6) compagni di partito fortemente avversati.

Ripartire a sinistra

In Editoriali on 05/06/2014 at 16:12

keep-calm-and-vote-for-syriza

di Nicola Melloni

da Esseblog

L’Altra Europa con Tsipras ha passato lo scoglio del 4% e non era per nulla scontato; si tratta dunque di un risultato positivo, un punto fermo da cui ripartire. Le buone notizie, in realtà, si fermano qui, ma il bicchiere è, per ora, mezzo pieno, a patto che lo sforzo compiuto per queste elezioni non sia fine a se stesso ma il punto di partenza per qualcos’altro.

I fatti, anche sgradevoli, sono davanti agli occhi di tutti. E’ inutile nascondersi che l’Italia è l’unico paese mediterraneo in cui la sinistra rimane clamorosamente marginale. In Grecia, i partiti che si rifanno al GUE sono oltre il 30%, in Spagna e Portogallo intorno al 20. Sono numeri notevoli: in Grecia certo ha contribuito la crisi e le responsabilità del Pasok nelle politiche di austerity. Anche nella penisola iberica i socialisti hanno perso il controllo della sinistra e pagano un forte prezzo elettorale, quasi raggiunti dalle formazioni di sinistra. In tutti questi paesi, per altro, si registrano divisioni politiche: Syriza e il KKE hanno idee opposite sulla permanenza in Europa, mentre in Spagna e Portogallo i dissidi nel campo socialista non hanno (ancora?) portato alla riorganizzazione della sinistra. Eppure queste divisioni non hanno scoraggiato l’elettorato, anzi.

In Italia, invece, si è tornati, dopo anni, ad una lista unica della sinistra, che ha però perso voti, in termini reali, anche rispetto alle disastrose politiche del 2013 (anche sommando il punto e mezzo percentuale teoricamente sottratto da Verdi e Italia dei Valori). Non ci sono dubbi che la lista ha avuto problemi, per così dire, strutturali: la novità politica, il pochissimo spazio sui media, la difficile riconoscibilità del simbolo e del nome. Tutto vero, ma questo non sembra, per esempio, aver fermato un movimento come Podemos che soffriva degli stessi problemi.

L’Altra Europa chiaramente paga colpe non sue, che sono quelle delle divisioni del passato, della costante lite a sinistra, dell’ombra di gruppi dirigenti fallimentari. Ha anche colpe proprie però: dopo la debacle politica del PD sull’elezione del Presidente della Repubblica, la sinistra, tutta, è rimasta immobile, salvo poi organizzare una lista in fretta e furia a pochi mesi dalle elezioni, lamentandosi del poco tempo a disposizione – eppure lo sapevamo da cinque anni che ci sarebbero state le elezioni europee a Maggio. Il coraggio espresso dal gruppo di intellettuali capeggiato da Barbara Spinelli – e il sudore, le firme, la fatica fatta dai militanti dei partiti che pure esistono e si sono rivelati decisivi – hanno permesso il superamento del 4%. E’ rimasta però, in tanti, l’impressione che si sia trattato dell’ennesimo cartello elettorale, capace di superare lo sbarramento solo grazie ad una astensione ai massimi storici.

In questi anni la sinistra italiana, almeno a livello istituzionale, sembra esser sparita. E’ più che viva nella società, dalle lotte per la casa, al referendum sull’acqua, alle lotte sindacali, ma non sembra in grado di trasformare queste esperienze in forza politica. Ci si accontenta, per così dire, di battaglie importanti, ma singole, su temi specifici. Non basta e non può bastare: la disgregazione politica, l’irrilevanza istituzionale, il Parlamento abbandonato portano solo al predominio istituzionale, culturale, economico e politico delle elite, rappresentante con efficacia altalenante ora dal PD, ora da Berlusconi. Con il ruolo di opposizione di bandiera, senza nessuna linea politica, lasciato al M5S – che ha cominciato a pagare questa sua struttura amorfa, buona per prendere voti, inutile per incidere nella società.

Da questi problemi è dunque necessario ripartire, subito. Chiedendo un nuovo sforzo di generosità a partiti che si devono mettere in discussione, ed esser capaci di abbandonare le vecchie ruggini – e posti di potere, e privilegi – per mettersi a disposizione di un nuovo progetto politico. E ad intellettuali, perché gli appelli e le interviste non possono bastare, ma è la pratica politica, giorno dopo giorno, come fossimo in una costante campagna elettorale, a fare la differenza. Ed anche ai sindacalisti, che le battaglie fiere, ma perdenti, della FIOM non servono a nessuno, tantomeno ai lavoratori, perché un sindacato senza appoggio istituzionale diventa monco e perdente. E a tutti noi, in fondo, che viviamo la militanza soprattutto come voto, che siamo sempre indignati con i Renzi di turno, ma che poco facciamo, oltre indignarci. Bisogna creare, subito, un luogo collettivo di speranze, lotte, aspirazioni e, perché no, sconfitte e frustrazioni, un soggetto vivo nella società, nei posti di lavoro, che parli non solo alla testa delle persone, ma anche alla pancia e al cuore. Che parli, dunque, ad un popolo, e non al singolo elettore. Altrimenti questo risicato 4% sarà stato nuovamente inutile.